Era il 1995 quando fu introdotto in Italia il concetto di medicinale generico, sostituito successivamente, dieci anni dopo, con l’aggettivo equivalente perché il primo termine poteva inculcare nella popolazione l’idea che si trattasse di farmaci meno efficaci.
Per medicinale equivalente, quindi, s’intende quel farmaco che si dimostra bioequivalente rispetto a un altro farmaco, ovvero quando rilascia, con uguali modalità, frequenza e concentrazione, lo stesso principio attivo di quello ‘di marca’, con un brevetto ormai scaduto. In poche parole, infatti, il farmaco equivalente non differisce affatto per efficacia, potenza, effetti collaterali, sicurezza, indicazioni e controindicazioni.
Nonostante la precisazione adottata nel 2005, gli italiani si dimostrano ancora oggi poco inclini all’uso dei farmaci equivalenti: stando a recenti stime, solo il 12% dei farmaci dispensati nel nostro Paese è generico (e si usano più al Nord che al Sud), mentre in altri Paesi Europei rappresentano il 50% delle unità vendute o addirittura il 70% nel caso della Germania. Negli Stati Uniti d’America, poi, il mercato farmaceutico è dell’80% proprio degli equivalenti.
Come mai questa diffidenza per i farmaci equivalenti?
Innanzitutto, uno dei motivi sicuramente principali è rappresentato dal costo: il prezzo del farmaco equivalente è inferiore rispetto a quello di ‘marca’ (in genere, consente un risparmio di circa il 20 - 50%). Tuttavia, tale condizione economica non riguarda la scarsa efficenza del primo: gli equivalenti costano di meno perché sono composti da molecole già sottoposte a studi clinici che ne hanno provato l’efficacia per la messa in commercio in prodotti con nomi di ‘marca’, il cui brevetto - come già scritto - è scaduto. La mancanza dei costi legati a ricerca, sviluppo e commercializzazione fa in modo che le industrie produttrici dei farmaci equivalenti li possano vendere a un prezzo inferiore rispetto a quelli di ‘marca’.
Un altro fattore che incide sulla percezione della gente è rappresentato da ragioni commerciali. Come spiegato, infatti, nel giugno 2011 dal dott. Silvio Garattini sul Corriere della Sera, “le industrie hanno un notevole interesse ad ostacolare il diffondersi degli equivalenti, perché per mantenere la competitività dei prodotti di marca le ditte devono diminuirne il prezzo e per di più vedono erose le loro vendite dalla concorrenza. Anche i medici spesso esprimono dubbi, perché quando prescrivono un farmaco di marca, magari, in qualche caso si possono aspettare un ringraziamento da parte dell'industria che lo produce, mentre il farmaco equivalente può essere prodotto da molte industrie farmaceutiche”.
Tuttavia, in un’epoca storica ed economica come quella che stiamo vivendo - dove si fa un gran parlare di costi da tagliare e di risorse da usare per ambiti rilevanti per il progresso sociale ed economico della società italiana - è giusto trasmettere il messaggio che i farmaci equivalenti consentano di risparmiare denaro al Servizio Sanitario Statale, “circa 600 milioni di euro nel 2010, soldi che - ha sottolineato sempre il dott. Garattini - sono stati utilizzati per coprire in parte la spesa legata a farmaci molto costosi, come quelli utilizzati per i pazienti con tumore”. Ciò perché le quote di denaro pubblico risparmiate per il rimborso dei farmaci generici vengono spostate a favore dei farmaci innovativi per la prevenzione e la cura di patologie croniche e per promuovere la ricerca no-profit dedicata allo studio di farmaci utili nel trattamento delle malattie rare, ovvero i FARMACI ORFANI, su cui le aziende farmaceutiche multinazionali non sono interessate a investire grandi risorse di denaro.