Oggigiorno un'appendicite, una tonsillectomia, un'asportazione di una verruca non sembrano neanche INTERVENTI chirurgici per la facilità e il lavoro di routine con cui vengono eseguiti, nonostante l'attenzione che ogni operazione richiede.
Eppure, per arrivare a questo stadio ci sono voluti secoli, anzi millenni, in cui la chirurgia non è stata sempre una scelta oculata, anzi, forse era considerata veramente l'ultima spiaggia, da effettuare soltanto se il rischio di morte era almeno pari a quello dell'intervento. I due nemici giurati di questa pratica erano il dolore e le infezioni.
La divisione dei compiti tra il medico ed il chirurgo era già palese ai tempi di Ippocrate. All'epoca, i chirurghi altri non erano che i barbieri. Sì, proprio quelli che facevano barba e capelli; ecco perché i medici ci tenevano a distinguersi da loro. In effetti, anche il mestiere di chirurgo non era paragonabile a quello di oggi; gli interventi erano soprattutto salassi, cura di emorroidi, estrazione dei calcoli dalla vescica, laringotomia per evitare il soffocamento, svuotamento di sacche di liquido nell'organismo. Strumenti essenziali erano forbici, coltelli, seghe, forcipi, aghi e soprattutto cauteri per evitare emorragie.
Questa forma di Chirurgia rimase invariata per tutto il Medioevo, praticata e poi trasmessa essenzialmente dai monaci, dopo le invasioni barbariche e la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, anche se ne bloccarono l'evoluzione per la loro nota avversione alle novità e in particolare alla chirurgia stessa. La situazione peggiorò sempre più nei secoli a venire, in cui la chirurgia ebbe una così bassa considerazione da essere bandita perfino dai monasteri con bolle papali. Ritornarono in auge allora i barbieri, in questo periodo detti cerusici, che si occupavano della tonsura dei monaci.
Alcuni di essi divennero così bravi da travalicare la fama di barbiere. Fu soltanto nella metà del XIII secolo, a cominciare con la Scuola Salernitana, che la chirurgia tornò ad avere un certo ruolo nell'ambito della medicina. Rimaneva però il problema delle infezioni. La Scuola Salernitana, infatti, tendeva ad affermare che il pus non dava problemi; furono invece Ugo e Teodorico dei Borgognoni (padre e figlio) a smentirli giustamente, affermando che il pus rallentava la guarigione e che, invece, le ferite andavano disinfettate e mantenute pulite.
Ma il primo disinfettante vero e proprio fu scoperto casualmente da un giovane chirurgo francese, Ambroise Paré, medico militare, al campo durante l'invasione di Francesco I nel Piemonte. Egli curava le ferite da polvere da sparo con olio di sambuco bollente, che provocavano cicatrizzazione ma a prezzo di febbre forte e tumefazioni della pelle.
Una sera aveva finito il suo 'disinfettante', così, per continuare il suo mestiere se ne inventò uno nuovo, composto da uova, olio di rose e trementina; ne costituì un miscuglio omogeneo e lo spalmò sulle ferite dei soldati, ma non riuscì a dormire col timore di aver arrecato danno ai feriti; invece, quando la mattina si alzò per andarli a controllare, scoprì, con grande gioia, che non soltanto le ferite non si erano infettate, ma non erano neanche tumefatte e non c'era febbre. Il miscuglio che aveva creato si era rivelato molto più efficace dell'olio di sambuco.
Non fu così fortunato, invece, un altro medico, Ignaz Semmelweiss, aiutante nel reparto di maternità dell'ospedale di Vienna. Egli notò una cosa molto strana: nel loro reparto, dove operavano medici e studenti, le puerpere e le gravide morivano con un'estrema facilità, mentre nel reparto in cui queste venivano visitate ed assistite soltanto dalle levatrici, la mortalità erano di molto inferiore.
Un incidente casuale occorso ad un collega durante la dissezione di un cadavere (fu ferito da uno studente e morì con la stessa febbre che attaccava le puerpere) gli fece comprendere il nocciolo del problema: le donne che avevano partorito venivano infettate dai germi patogeni esistenti nella carne putrefatta dei cadaveri quando medici e studenti ne toccavano l'utero ancora sanguinante.
Egli decise allora di istituire una sorta di disinfezione prima delle visite a queste donne da effettuarsi con cloruro di calce dopo aver accuratamente lavato le mani. Purtroppo, dopo qualche tempo, Semmelweiss fu deriso e cacciato dall'ospedale e da tutti gli altri dove andò a lavorare e cercò di far comprendere la necessità dell'igiene. Morì di Setticemia nel manicomio in cui era stato rinchiuso.
La vera svolta fu attuata da un chirurgo scozzese, Joseph Lister, professore di chirurgia a Glasgow. Egli aveva osservato che molti pazienti ricoverati in ospedale morivano per sopraggiunta cancrena e non riusciva a spiegarsene il motivo; un giorno, un suo amico chimico gli consigliò di dare uno sguardo agli studi e alle conclusioni cui era giunto Pasteur riguardo alla fermentazione e a Lister sembrò di aver trovato la strada giusta: il problema era la disinfezione.
In quel periodo, era stato prodotto un disinfettante per le fogne chiamato acido fenico e proprio questa sostanza Lister scelse per provare la sua tesi; applicò dell'acido fenico su una frattura esposta, che rappresentava il caso più grave delle ferite, perché solitamente sfociava in cancrena, ed attese. La sua attesa fu premiata, perché non ci fu sepsi, e quindi neanche cancrena.
Nel 1867 pubblicò i suoi risultati su The Lancet e cominciò ad attuare una sistematica disinfezione di camera operatoria, strumenti e personale prima di qualsiasi intervento. I risultati che ottenne nelle corsie d'ospedale furono eccellenti, ma nonostante tutto fu osteggiato perché questa pratica era in aperto contrasto con tutta la tradizione chirurgica. Alla fine, però, il metodo Lister conquistò tutti gli addetti ai lavori e gettò le fondamenta per la chirurgia moderna, come la conosciamo oggi.