Ancora nel 1930 un autorevole Dizionario medico definiva il 'tarantolismo' (o 'tarantismo') una “sorta di Neuropatia convulsiva a ricorrenza epidemica, descritta per la prima volta presso Taranto nei secoli XV- XVI, raggiungendo l’acme nel XVIII; si credeva fosse provocata dal morso della tarantola, ma in realtà sembra sia trattato di còrea, di natura isterica”.
A dire il vero nemmeno oggi si riesce a darne una definizione ben precisa; né si sa se l’indicazione del fenomeno (particolarmente diffuso in Puglia) derivi dal nome della città di Taranto o da quello della tarantola, il cui morso si credeva provocasse uno stato di profondo torpore e languore, interpolato da accessi convulsivi, che poteva condurre al letargo e anche alla morte.
La sola... terapia considerata valida anche dai medici era una musica-danza in 3/8 o in 6/8, che evocava il nome della tarantola: la tarantella. Una musica ripetitiva sino all’ossesso, progressivamente accelerata e ritmata dal tamburello, suonata da uno strumento (flauto, violino, arpa) selettivamente scelto per ogni singolo 'caso'.
Alle prima battute l’ 'attarantolato' (di solito una ragazza), che era rimasto sino a quel momento pressoché immobile, cominciava ad accennare a dei movimenti di danza, che divenivano sempre più articolati e frenetici, sino a continuarsi per ore.
Da notare che ancor prima della tarantella, esisteva allo scopo una forma musicale pressoché simile, detta pizzica (si rifaceva alla parola 'pizzica', il morso della tarantola), musica detta anche pizzica tarantata, ugualmente sfrenata e coinvolgente, il cui è Timo originale è difficile stabilire, essendo il rito alquanto diffuso anche in Sardegna e in Spagna.
Questo si svolgeva secondo varie fasi ben stabilite: nella prima il genere di movimenti della 'paziente' denunciava il tipo di tarantola responsabile del morso ('libertina', 'triste e muta', 'd’acqua', 'tempestosa'); nella seconda, l’attarantolata continuava nei suoi movimenti attratta morbosamente da un particolare colore del vestito di un astante, corrispondente a quello della tarantola responsabile del veleno.
Seguiva una fase 'corèica' o 'saltatoria', con movimenti epilettoidi 'di possessione' o particolari posizioni e atteggiamenti che mimavano quelli della tarantola stessa. Il rituale (di cui esistevano ovviamente diverse varianti) terminava quando la vittima calpestava simbolicamente la tarantola, segno dell’avvenuta guarigione.
Il tutto sotto la sapiente 'regìa' di un... direttore di scena. Il fenomeno del tarantolismo è andato via via estinguendosi nell’ultimo secolo, sopravvivendo in ristrette zone del Centro-sud con riti molto abbreviati e semplificati.
Al tempo, anche i medici attribuivano i disturbi del 'paziente' al morso della tarantola, e a loro avviso le contorsioni della danza servivano per liberare il corpo dal veleno da essa inoculato. Solo dopo la seconda metà dell’Ottocento si cominciò a pensare a un possibile forma di isteria, data la prevalenza nelle 'giovani vezzose forosette'.
E autorevoli psichiatri affermarono testualmente che "queste pallide e insoddisfatte donzelle si mostrano attarantolate per nascondere una più grande ferita che fa delirare”.
Fonti:
- G. Jacovelli: La Puglia nell’evoluzione del pensiero medico. Ed. Stampasud, Taranto, 1984