La risposta al suo primo quesito è ad un tempo semplice e complessa. Il nostro punto di vista è quello del clinico epatologo che cerca di interpretare i problemi dei pazienti considerando la globalità dei dati a disposizione, tra cui anche, ma non solo, quelli di laboratorio. Per questo fine ci avvaliamo, prima di tutto, dell’esame clinico, inclusa l’anamnesi, degli esami di immagine (ecografia, radiografia, TC, RMN, etc), dei test di laboratorio, filtrandone i risultati attraverso l’esperienza clinica e la conoscenza scientifica. Pertanto utilizziamo i dati che il nostro laboratorio (di fiducia) ci invia e chiediamo informazioni precise sui limiti di riferimento, soprattutto per quegli esami che non hanno risultati standardizzati universalmente accettati. Purtroppo le aminotransferasi fanno appunto parte di questa categoria di esami. Per quanto riguarda i motivi “tecnici” per cui ciò accade, questi sono da richiedere ai biochimici clinici. Essi sono i più esperti in questa specifica branca. Noi ci limitiamo a prenderne atto e misuriamo le alterazioni dei valori di aminotransefrasi in multipli rispetto ai valori massimi di riferimento, per creare una omogeneità nella comparazione di dati sequenziali, proprio perchè esistono metodi di determinazione diversi ai quali corrispondono valori normali diversi. È importante quindi fare riferimento ai valori normali del laboratorio presso il quale è stato effettuato l’esame. C’è da considerare che per valutare la probabilità che una malattia sia presente, i risultati di un esame vengono solitamente confrontati con i valori ottenuti da individui sani; la distribuzione di questi risultati viene definita intervallo di riferimento, mentre gli estremi alto e basso dell’intervallo si chiamano limiti di riferimento superiore e inferiore, rispettivamente. La maggioranza dei laboratori applica a quasi tutti gli esami del proprio menu un singolo intervallo di riferimento, definito come il 95% centrale dei risultati ottenuti da una popolazione sana. A causa delle notevoli differenze tra laboratori, la standardizzazione dei metodi è una priorità. Nel frattempo l’adozione di sistemi adatti a ridurre le differenze, come ad esempio l’espressione dei risultati come multipli del limite di riferimento, hanno evidenziato la potenzialità di ridurre la variabilità inter-laboratorio. Oggi i limiti di accettabilità per l’errore totale della misura della attività della ALT sono fissati al 20% (CLIA). Sarà probabilmente necessario sviluppare un programma di standardizzazione per la misura della ALT simile a quello già attuato per il CK-MB che potrebbe prevedere il ricorso ad altri metodi, per esempio immunometrici, per raggiungere il limite di errore totale accettabile per gestire correttamente i pazienti con epatite cronica. Come requisito minimo, ogni laboratorio deve avere limiti di riferimento superiori separati per maschi e femmine adulti.
Per quanto riguarda la durata del periodo finestra per lo sviluppo di anticorpi per l’epatite C acuta, questa di solito è prevista in 4-12 settimane. Dopo questo lasso di tempo è possibile identificare fino al 90% dei soggetti con anticorpi. I test di screening di prima generazione diventano positivi a distanza di 4-6 mesi dall'infezione, quelli di seconda generazione in un periodo variabile da 11 a 20 settimane dall'infezione, mentre quelli di terza generazione sarebbero in grado di diminuire ancora "l'effetto finestra" prima della sieroconversione. Proprio per l'esistenza di questo "periodo finestra", che può durare anche due anni, un'eventuale sieronegatività del donatore al momento della trasfusione non esclude la possibilità di contagio e, perciò, richiede successivi controlli nel tempo. Grazie a test di terza generazione è possibile rilevare una serie di anticorpi diretti contro un pool di epitopi virali noti, come NS3, NS4 e NS5. La loro specificità è più del 97% mentre la loro sensibilità è difficile da determinare a causa dell'assenza di un gold standard. L'esperienza clinica indica che il test EIA risulta positivo in oltre il 99% dei soggetti immunocompetenti in cui l'RNA virale è misurabile. In generale, tali specificità e sensibilità si abbassano in pazienti in emodialisi e con gravi immunodeficienze. I più recenti test EIA di terza-generazione coinvolgono proteine dl core e proteine non-strutturali 3, 4 e 5; questi possono essere usati per rilevare anticorpi entro 4-10 settimane dopo l’insorgenza dell’infezione. Il periodo medio per la sieroconversione HCV dopo emotrasfusione è stato quindi accorciato con ciascuna generazione di test EIA: da 7 a 8 settimane con ELISA-3 in confronto alle 10 settimane di ELISA-2 ed alle 16 settimane con ELISA-1.
Per quanto riguarda la terza ed ultima domanda, guadagneremo tempo e spazio rispetto alle due precedenti. La fase acuta delle epatiti è sempre accompagnata da aumento dei valori delle aminotranserasi, altrimenti non è una epatite acuta.