Il perdono non è solo un dono per gli altri: diventa terapeutico anche per se stessi. Intervista alla Prof.ssa Grazia Aloi, Specialista in Psicologia e Psicoterapia e Sessuologia.
'Perdono' è un termine abbastanza utilizzato, una parola quasi di moda. Ci spiega il suo vero significato?
In effetti, la definizione di perdono è più o meno da tutti conosciuta se non altro nella sua accezione letterale: significa compiere l'atto di concedere (il 'per' rafforzativo dell'azione) il dono della rinuncia alla rivendicazione del torto subito. È dunque una remissione, una concessione che si dona a chi ha commesso ciò che non avrebbe dovuto commettere.
Compiere un'azione ha, evidentemente, sempre la sua reazione e penso che occorra chiedersi che effetto faccia psicologicamente perdonare ed essere perdonato e, dunque, ciò che qui più mi interessa sottolineare è il significato psicologico di riflesso, di ritorno su chi perdona e su chi è perdonato, ossia l''effetto che fa' il perdono. Rispetto al conoscerne veramente il significato, secondo me, penso si possa affermare che il perdono sia una svolta affettiva di grande rilevanza e impatto psicologico rispetto al sentimento di vendetta o all'odio. È il contrario della punizione.
Molto spesso si parla di perdono come azione di 'buon cuore' che solo il tempo può portare con sé. È proprio così?
Chi è ferito, per qualsiasi motivo, prova dolore, proprio perché si è feriti solo se ci sono di mezzo i sentimenti, altrimenti si proverebbe solamente rabbia per lo schiaffo all'autostima e prima o poi la rabbia svanirebbe o si trasformerebbe in astio; il Dolore no, il dolore della ferita affettiva non passa finché non ci sarà una sua risoluzione; risoluzione che è sì aiutata dal trascorrere del tempo ma non del tutto perché occorre un atto trasformativo decisivo e non lasciato al passare del tempo.
Il trascorrere del tempo mitiga il ricordo e lenisce la sofferenza, come un balsamo, una pomata lenitiva, ma è 'sintomatica', non toglie la causa. "Pensa a te stesso, cerca di dimenticare" sono soluzioni consolatorie ma non risolutive. Certo, ci si può mettere d'impegno per 'non pensarci più', ma come per tutto ciò che è messo da parte, prima o poi salta fuori, magari all'improvviso e il dolore ritorna accompagnato dal sentimento di inadeguatezza per non aver saputo 'risolvere' definitivamente almeno con se stessi. Mettere da parte è sempre un atto poco coraggioso, anche se a volte davvero utile, soprattutto nei casi in cui non ci siano le possibilità per affrontare il dolore. Ma occorre sapere che esso non è eliminato, ma conservato in qualche angolo della casa-mente.
Intende dire che il perdono comprende altro dal far fare al dolore il suo corso?
La risoluzione per guarire dal profondo dolore delle ferite nell'anima, nell'orgoglio, nella dignità, nell'amore, negli affetti e negli ideali più profondi è una sola, una con due risvolti: agire e i due risvolti sono passare all'azione rivendicativa (farsi giustizia in qualunque modo) o perdonare. L'azione rivendicativa, di vendetta, del farsi giustizia è come ricorrere ad un intervento chirurgico per 'amputare' la parte che sente il dolore ormai insopportabile.
Ma anche questo 'intervento' non è mai risolutivo del tutto perché resta la menomazione della 'amputazione' come segno del ricordo doloroso. Si passa da un dolore insopportabile ad una esibizione - a volta narcisistica - del senso di 'giustizia'. Il dolore è 'lavato'. A volte funziona, altre decisamente no. Perché chi si vendica avrà chiuso la via della riconciliazione per sempre, la via del perdono ma - attenzione - non all'altro bensì a se stesso: cioè chi si vendica non concede a se stesso il dono della remissione del dolore e della sua causa.
L'altro risvolto della chiusura del dolore è, appunto, il perdono. Nessuna operazione chirurgica, nessun taglio, nessuna cesoia: solamente una comprensione intimamente significativa della possibilità di trasformare il dolore in calore per alimentare nuova vita.
Il perdono allora non è solamente un dono per l'altro?
Certo, perché offrire il dono della remissione del dolore all'altro è principalmente offrire a se stessi il dono di dare senso alla pace e alla quiete del proprio amore per la comprensione delle faccende umane. Comprendere che l'altro ha fortemente, terribilmente, crudelmente, ingiustamente sbagliato ferendoci in modo atroce e disumano fa parte dell'amor proprio, dell'amore per se stessi: il perdono è terapeutico per se stessi, ancor prima che per l'altro.
Significa mettere ordine nello sconquasso della ribellione all'essere stati sottoposti ad indegna libertà assunta dall'altra persona per ferirci e farci soffrire, magari inutilmente. Perdonare non è dare alternativa, giustificazione o dimenticanza al comportamento dell'altro: perdonare è fare pace.
Ogni tragedia umana tra due persone comporta lo stillicidio della guerra, ma anche chi vince perde ugualmente perché la sua potenza si trasforma in Impotenza rispetto al buon agire. Non c'è mai una buona ragione per farsi la guerra, perché la supremazia sull'altro è arroganza e violenza e come tale andrebbero 'curate' prima dell'esplosione.
La violenza, quella gratuita e senza ragione per di più, è sempre frutto di immaturità psicologica, di immaturità psico-affettiva, per cui si conosce il sentimento del tutto o nulla: o si ama o si odia e così come erroneamente si pensa che l'amore permetta tutto, altrettanto viene pensato per l'odio. L'odio acceca, si dice - ed è vero.
Quindi occorre sempre perdonare?
Direi che è importante rimettere la questione nelle mani della propria capacità adulta di vivere con un male subito. Freud insegnò che non è tanto ciò che nella vita ci capita che è importante (perché può capitarci di tutto) ma ciò che ce ne facciamo con quanto ci è successo. E dunque, ci è successo un dramma carico di dolore insostenibile?
Facciamocene qualcosa con il 'fatto': perdonare è una di queste possibilità del farsene qualcosa, ossia è la possibilità di chiudere definendo e dunque di non continuare a dover medicare ferite. Non è nessuna questione di carità cristiana o altro di simile, al massimo si tratta di carità umana per se stessi (sicuramente) e di comprensione sinceramente caritatevole verso l'altro. La sincerità della carità deve essere davvero sentita, altrimenti vale il detto che la carità se non è autentica è 'pelosa'.
Come si capisce che si è messo in atto il movimento del perdono?
Credo che ciò sia molto difficile da spiegare: ognuno lo sente dentro di sé proprio perché a differenza della rivendicazione e della vendetta, che si pianifica a tavolino, per il perdono non c'è nessuna strategia. Solo una 'botta di pancia' che arriva fino al Cuore e fa dire: "devo farmene qualcosa di questo dolore".
Sembrerà assurdo, ma il male ricevuto aiuta a crescere, aiuta a capire la sofferenza; certo, se ne farebbe a meno, ma se per quello di quante azioni emancipative dolorose si farebbe a meno? Il dolore emancipa e il perdono rende liberi. Sempre. E poi vi è un'altra questione di estremo valore e pregnanza psicologica: perdonando non si concede all'altro la facoltà (il potere) di essere ancora colui che ci fa soffrire. In quest'altro senso il perdono è anche assolutamente terapeutico ed emancipativo per se stessi.
E dalla decisione di perdonare che cosa succede?
Succede che ognuno accoglie la decisione - a mio parere stupenda - e si rende ulteriormente conto che è ora. Ripeto: siamo pronti per il perdono quando la botta della pancia spazza via la sopportabilità della sofferenza. Basta! anche se so perfettamente che il tempo del dolore è indispensabile ed ognuno deve prendersi il suo, di tempo, tutto quello che serve per piangere, per rotolarsi nella disperazione, per chiedersi se e quali responsabilità, per chiedere aiuto e conforto, per darne un senso, per spezzettarsi in mille pezzi.... finché pian piano la figura che siamo ricomincia a diventare intera, senza più nessun ospite a farci del male.
Comunque è un processo lento: mica uno si sveglia e dice: "basta, oggi perdono"; no: la ricostruzione è lenta e soprattutto non può essere programmata. Si parte dalla rinuncia all'odio e si prosegue verso la ricostruzione dell'amore di se stessi.
E l'altra persona, quella perdonata?
Magari non lo sa neppure che è stata perdonata, oppure sì; in ogni caso, l'atto del perdono può far scaturire la comprensione dell'insensatezza della crudeltà. Sicuramente, non può non far del bene, se non altro perché aver ricevuto il dono obbliga alla riflessione sulle proprie capacità e qualità di stare al mondo con gli altri e con se stessi e obbliga ad un'altra importante riflessione, ossia a quella che occorre perdonare il male commesso e fatto subire.
Anche perdonarsi è un atto assolutamente di forte impatto psicologico, purché comprenda in sé la volontà e la ferrea decisione dell'umiltà, del pentimento e della riparazione morale. Ecco, il perdono serve a fare pace non tanto con gli altri (a volte difficile) bensì con se stessi, a volte altrettanto difficile. Ma risolvere le difficoltà proprie ed altrui rientra nella moralità ed affettività del vivere umano.