Innanzitutto penso che la psicologia delle persone, anche quando questa trova espressione in segni apparentemente incomprensibili o idiosincratici, non possa essere rappresentata in categorie monocromatiche, della serie giusto – sbagliato, patologico – sano. Ciò è vero a maggior ragione anche per la dipendenza così detta affettiva.
Basti pensare quanto ad esempio eventi traumatici possano minare il sano senso di onnipotenza e stabilità nell’adulto, rifuggendolo in una condizione originaria di pericolo, dove il mondo si scompone in pezzi e tutto il senso che fino ad ora dava senso, non ha più senso. Quando ciò accade, la presenza dell’Altro, la possibilità di dipendere affettivamente, non solo è utile ma qualche volta è più di un’ancora di salvezza. L’uomo è in questo senso intrinsecamente relazionale, per sua natura.
Oppure basti considerare ad esempio quanto il bambino abbia bisogno di qualcuno che gli conceda lo spazio della dipendenza per poter crescere. Ciò gli permette di prendere a prestito l’immagine di sé e l’immagine del mondo attraverso lo specchio degli occhi dell’altro. Ma non è solo una questione di freddi contenuti cognitivi è qualcosa di molto più profondo che definisce la dimensione del senso affettivo dell’esistenza, ciò che è comprensibile, rappresentabile attraverso lo spazio del corpo prima e degli affetti poi.
È attraverso la dipendenza alla nicchia affettiva della Madre che il bambino sperimenta il senso dell’esperienza ed impara a dare il senso del piacere all’esperienza (attraverso il senso che impara a dare all’Altro e quindi a Sé stesso) e ciò implica sempre una perdita dell’individualità originaria ma una necessità che passa attraverso l’adesione alle aspettative che l’Altro significativo pone nella sua cura e nel suo accudimento; necessità che pone il bambino nella condizione di essere Soggetto dotato di immagine, affetto, pensiero, linguaggio, realtà, ma attraverso la condizione di entrare nell’immagine, nell’affetto, nel pensiero, nel linguaggio, nella realtà che l’Altro gli concede. È ovvio che questa dimensione è data da una parte dal repertorio biologico che spinge il bambino verso la relazione e la dipendenza in modo automatico, ma è anche data dalla disponibilità, dalla possibilità affettiva che l’Altro concede alla dipendenza e se l’Altro non c’è o non può costruire una risonanza empatica con suo figlio/a il bambino ferma il suo sviluppo, non cresce più, quanto meno nel senso dell’originalità del suo essere individuo unico. Questo è ciò che accade nelle diadi relazionali non sincronizzate in modo sufficientemente buono dove l’indisponibilità affettiva del contesto di accudimento, per mancanza piuttosto che per eccesso emotivo, pone il bambino nella condizione di orientare la propria evoluzione nella direzione della rinuncia. E la rinuncia è sempre emozionale, il bambino rinuncia alla rabbia e quindi ad opporsi, piuttosto che alla gelosia e quindi a rivendicare, piuttosto che alla gioia e quindi ad essere felice, piuttosto che alla tristezza e quindi a non potersi permettere di essere infelice.
Quando il bambino si costruisce sulla rinuncia, si costruisce sulla dimensione falsa di Sé; è un po’ come se si limitasse a coltivare sempre l’orto del vicino facendolo passare per il proprio. Al timone della costruzione del palazzo della sua identità c’è l’Altro, c’è la relazione che deve tenere in piedi, con tutti gli sforzi possibili, quali ad esempio la rinuncia a Sé. È evidente che ciò si struttura su dei bisogni, quali la conservazione dell’Altro, indispensabile. Il proprio orticello, però, se non viene coltivato s’inaridisce fino a diventare inaccessibile e sconosciuto. La differenza tra dipendenza affettiva funzionale e dipendenza affettiva fusionale sta proprio in questi aspetti.
La dipendenza in questo senso è la Patologia della Finzione per la paura della perdita e dell’intrinseca rappresentazione di Sé (il vero Sé) come inconsistente e vuoto di produzioni buone o anche solo accettabili. Il vero Sé è caricato di colpe, di vergogne, di timori, da nascondere perché inaccettabile e compromettente: il rischio ed il pericolo è la perdita della relazione e dell’Altro che è certamente diverso dal soggetto materno - paterno, ma è anche allo stesso momento la ripetizione dell’Altro materno – paterno attraverso cicli relazionali continui e patologici.
Un racconto di Daudet Alphonse credo possa spiegare per certi aspetti meglio di molti tecnicismi la particolare dinamica che si struttura nella psicologia della persona dipendente affettivamente.
C'era una volta un bambino con un cervello d'oro. I genitori se ne accorsero per caso, vedendo sgorgare oro, anziché Sangue, una volta che il bambino si era ferito alla testa. Presero dunque a sorvegliarlo con gran cura e gli proibirono di stare con gli altri bambini, per paura che lo derubassero. Quando il ragazzo, divenuto grande, volle andarsene per il mondo, la madre disse:
«Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, anche a noi spetta un po' della tua ricchezza».
Il figlio allora estrasse un pezzo d'oro dal suo cervello e lo donò alla madre. Ricco com'era, visse nel lusso insieme ad un amico per un certo tempo. Ma una notte l'amico lo derubò e scappò via. Allora l'uomo decise che non avrebbe più rivelato ad alcuno il proprio segreto; e, poiché le scorte si assottigliavano a vista d'occhio, pensò di mettersi a lavorare. Un bel giorno s'innamorò di una graziosa fanciulla e ne fu contraccambiato. Ma la fanciulla amava anche i bei vestiti che egli le comprava in gran quantità. Dopo essersi sposati, vissero felici per due anni, poi la fanciulla morì, e per i suoi funerali, che dovevano essere grandiosi, l'uomo spese tutto ciò che gli restava.
Un giorno mentre debole, povero e triste si trascinava per la strada, vide in una vetrina un paio di stivali, che sarebbero andati giusti alla moglie. Dimenticando di essere vedovo (forse perché il suo cervello svuotato non funzionava più), entrò nel negozio per comprarli.
Ma in quel momento crollò a terra ed il venditore lo vide giacere morto dinanzi a lui.
Proviamo a tracciare un identikit del "dipendente affettivo". Chi è e come riconoscere gli atteggiamenti e i comportamenti a rischio in una persona?
Ognuno porta dentro di Sé i surrogati emotivi della propria storia affettiva, attraverso schemi, modalità, automatismi, format relazionali – affettivi – cognitivi che vengono ripetuti, come un gomitolo che si snoda dando la forma ad un tracciato che così può essere letto.
Il dipendente affettivo fusionale si muove fra due posizioni: il piccolo bambino/a adattato, che non disturba ed il piccolo bambino/a arrabbiato. Mentre la prima posizione si basa sulla rinuncia alla propria originalità per l’adesione alla struttura delle aspettative dell’altro, la seconda si basa più su aspetti emotivi di fastidio e rabbia.
Sono due posizioni differenti se non apparentemente opposte ma integrate all’interno della dinamica della dipendenza affettiva fusionale.
Mentre la prima posizione si caratterizza per la dimensione oblativa riservata al Sé, al fine di definirsi all’interno della prospettiva dell’Altro, la seconda si caratterizza per la dimensione di fastidio verso l’Altro nel momento e nella misura in cui il suo dimensionamento all’interno della relazione non corrisponde alle aspettative ed alle fantasticazioni personali: sia nell’adesione eccessiva alla prospettiva dell’Altro sia nel rifiuto della prospettiva dell’Altro il timore di fondo che spinge l’azione del Sé è il timore che l’Altro esca dalla relazione o non sia adatto: in entrambe le condizioni il rischio è la perdita della relazionalità compensativa.
Nel dipendente affettivo fusionale (che come detto è differente dalla dipendenza affettiva funzionale) l’Altro funziona come argine non tanto verso un’idea del mondo come imprevedibile, ma più verso un’idea di Sé stessi come vuoti di contenuti, di desideri attivi, di progettualità in assenza dell’altro che contiene. L’idea di Sé stessi come vulnerabili e inadeguati, in assenza dell’altro che definisce e contiene la propria progettualità, attiva stati emotivi di minaccia, ansia e angoscia; L’idea di Sé stessi come indegni, attiva stati emotivi di vergogna e colpa in quanto sottintende l’immagine di Sé come persona che deve adeguarsi e sacrificarsi all’altro e che non può permettersi di uscire da questo schema in quanto ciò porterebbe alla perdita della relazione e della dipendenza compensativa. L’aspetto di indegnità si caratterizza come elemento costante di sottofondo, definibile come bassa autostima etica, in contrapposizione all’autostima di competenza, attivamente ricercata attraverso anche una eccessiva sovrapposizione di scopi e attività, con lo scopo ultimo di “coprire” il senso di inadeguatezza e indegnità di base.
In quest’ottica è abbastanza automatico definire un identikit del “dipendente fusionale”. Bisogna tenere in considerazione che si tratta comunque sempre di una forzatura ed una quadratura al cerchio limitante in quanto toglie dall’immagine la variabilità e la creatività personale nella costruzione del sintomo.
- Ricerca voracemente la relazione con l’Altro, fantasticando eccessivamente sulla funzione salvifica della relazione stessa.
- Non interrompe la relazione quando assume connotazioni asimmetriche, è insoddisfacente o autodistruttiva. S’impone alti livelli di tolleranza e sacrificio, riportando eventualmente su di sé la sola ed esclusiva responsabilità di ciò che relazionalmente non funziona. Gli alti livelli di accettazione e tolleranza lo pongono nel rischio di subire relazioni maltrattanti.
- Si pone in modo fittizio nella relazione con l’Altro anche al di fuori di relazioni affettive, evitando di rappresentarsi come un vero Sé. A volte non si rende conto di ciò che realmente sente, perché non alfabetizzato alla conoscenza delle proprie emozioni e dei propri vissuti.
- Sfugge la verità e racconta menzogne alle persone vicine per evitare che scoprano quanto la relazione sia problematica; cerca e s’impegna di salvare ciò che non è salvabile. La permanenza della relazione diventa un’ossessione.
- Controlla il partner e sottopone sistematicamente la relazione a test continui.
- Quando scopre che la relazione non funziona si sente in colpa in modo profondo e rimodula il proprio adattamento alla relazione problematica piuttosto che porre in discussione la relazione stessa.
- Evita di rimanere da solo ed ingaggia più relazioni contemporaneamente.
- Sperimenta stati sintomatici ansiogeni e panicosi quando teme che la relazione possa concludersi; mette in atto comportamenti autolesivi o gesti inconsulti come estrema modalità per “costringere” il partner a riprendere la relazione.
Si dice, estremizzando, che "in amore vince chi fugge" ma non è sempre facile riuscire a capire che la propria felicità non dipende necessariamente da un'altra persona. Dott. Savardi, si sente di consigliare qualcosa a chi vive questa condizione?
La propria felicità non dipende necessariamente da un’altra persona però dipende anche da questo.
Gli altri non sono meramente degli accessori ma sono parte portante della struttura definitoria ed affettiva del Sé. Ogni Sintomo psicologico richiama sempre la dimensione dell’Altro e si struttura sempre sulla dimensione con l’Altro, immaginato, fantasticato, negato, rimosso, violato, pensato e vissuto. Quanto meno nella struttura evolutiva degli affetti e delle emozioni personali, nella costruzione degli elementi portanti della propria personalità, negli stili di conoscenza attraverso i quali la persona impara a guardare e costruire porzioni fenomeniche di mondo possibile, l’Altro è sempre presente, cristallizzato o negato all’interno di strutture concettuali e narrative di sé: questa è la storia psicologica umana.
Il problema quindi non è tanto imparare a definirsi indipendentemente dall’Altro ma che tale definizione può esistere nonostante l’Altro e ciò deve configurarsi come un presupposto concettuale per poter investire affettivamente all’interno di una relazione, che non può essere data una volta per tutte ma che deve potersi costruire nella dialettica della separazione e riunione costante.
Ciò che accade nella dipendenza affettiva è la ricerca di una dimensione fusionale che nega la separazione come principio, perché la separatezza pone il Sé nella condizione di perdere l’illusione della propria integrità e consistenza se l’Altro non c’è o non è corrispondente. Il dipendente affettivo quindi si aggrappa voracemente alla relazione con l’idealizzazione del partner, con la negazione dei propri vissuti e sentimenti contrastanti, con l’eccesso di accomodamento alle richieste rappresentate asimmetricamente, con il fine sottostante di tenere in piedi il progetto traballante di Sé o di tenere in piedi un Sé senza progetto.
La dipendenza affettiva non è una condizione ineludibile o una strada senza via d’uscita, a patto di rendersi conto che “Non vediamo le cose come sono, ma come noi siamo” (Anais Nin).
Pertanto prima di tutto è necessario accorgersi di quanto la relazione sia condizionata dal timore della perdita della relazione stessa e quanto dietro tale timore ci siano sentimenti di paura, di colpa, di tristezza e di rabbia sostanziali, riferiti ad un’idea di Sé che senza l’Altro perde di consistenza. Il suggerimento che mi sento di dare è questo: imparare ad ascoltarsi e ascoltarsi per imparare. Se la relazione fugge su vissuti emotivi intensi ma problematici, ciclicamente, c’è un problema. Ascoltarsi vuol dire farsi carico del problema che è prima di tutto personale ed emotivo.
Quando l'amore finisce, come si può accettare serenamente la fine di un rapporto senza sprofondare nella paura di essere incapaci di "lasciare andare" l'altro?
È inverosimile se non paradossale pensare di accettare serenamente la fine di un rapporto. Infatti un rapporto si costruisce sempre su dei bisogni corrisposti, almeno ideazionalmente ed inizialmente.
Due persone che s’incontrano sono sempre due mondi che s’“incastrano” progettualmente ed emotivamente come i pezzi di un puzzle. La fine di un rapporto implica pertanto la divisione di ciò che era unito e pertanto comporta sempre un lutto, cioè un confronto con la sofferenza di ciò che è perduto.
Tuttavia c’è una differenza tra un lutto funzionale e costruttivo ed una ferita che non smette mai di sanguinare.
Il dipendente affettivo si sente perso in uno spazio senza punti di riferimento, attribuendo a questa situazione una condizione di sofferenza meritata ed irreversibile. Il lutto sano (dopo o durante lo sbandamento emotivo iniziale) passa attraverso l’accettazione dello stato di sofferenza come parte integrante di una crescita che verrà; alla base c’è una solidità percepita di Sé come attore di un mondo che non crolla, nonostante tutto.
Liberamente modificato dalla Preghiera della Gestalt di Fritz Perls (1893-1970).Il mantra del dipendente affettivo
Io sono Tu. Tu sei Io.
Io sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.
Tu sei al mondo per soddisfare le mie aspettative.
Io faccio la tua cosa. Tu fai la mia cosa.
Solo così ci incontreremo e sarà bellissimo;
Altrimenti non esisterà più niente.
Intervista di Roberta Collina