Le malattie del fegato interessano milioni di persone al mondo. Intervista al Dott. Raffaele Bruno, Ricercatore Universitario e Responsabile ambulatorio di Epatologia U.O. Malattie Infettive e Tropicali, Università degli Studi di Pavia.
Qual è il significato di questa giornata internazionale dedicata alle epatiti?
Si celebra il prossimo 19 maggio la giornata mondiale dell’epatite, un’iniziativa portata avanti dalla World Hepatitis Alliance, Organizzazione No Profit che rappresenta oltre 280 Associazioni nel mondo che tutelano i malati di Epatite B ed Epatite C. Queste malattie, infatti, sono ormai un’emergenza globale, interessando 500 milioni di portatori cronici nel mondo, un numero 10 volte superiore a quello dei pazienti colpiti dall’HIV. Nonostante questi dati l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha mai firmato una risoluzione che unificasse gli sforzi a livello mondiale.
Pensa che queste manifestazioni siano utili alla causa di incrementare la consapevolezza sull’importanza delle malattie del fegato?
Qualcosa potrebbe cambiare proprio in questi giorni, perché l’OMS sta discutendo una risoluzione che mira a riconoscere l’epatite quale emergenza sanitaria globale, puntando all’attuazione di politiche sanitarie omogenee.
Quanto pesano sulla mortalità/morbilità degli italiani le malattie del fegato?
L’Italia detiene il primato europeo per la prevalenza delle malattie epatiche con una preoccupante incidenza sulla mortalità: epatiti, cirrosi, tumori al fegato sono la causa di circa 20.000 decessi all’anno e si stima che siano oltre un milione e seicentomila gli italiani affetti da Epatite C e circa seicentomila i malati di epatite B. Numeri allarmanti.
Le epatiti virali sono ancora la causa più frequente di danno epatico cronico?
No abbiamo anche il 16% della popolazione che è affetta da epatiti metaboliche ossia il “fegato grasso” e circa 1 milione e mezzo di ragazzi di età compresa tra i 15 e 24 anni che fanno uso non corretto di alcolici.
Cosa fa l’AISF fuori dalle “giornate” per migliorare gli standard di diagnosi e cura?
Promuove e sviluppa i contatti informativi e gli interscambi di informazioni scientifiche sulle ricerche epatologiche effettuate sia in Italia che all’Estero, contribuendo al miglioramento del loro livello, inoltre effettua ricerche di base ed applicate sul fegato, sulle sue malattie e sulla loro prevenzione e sui modi di diagnosi precoce e di cura. Tra le altre finalità cerchiamo di diffondere ed attuare lo studio relativo all’epatologia, la prevenzione e la terapia delle malattie epatiche, ed il miglioramento dell’assistenza epatologica in Italia.
Che rapporti avete con gli Enti pubblici (ministeri, autorità europee, Etc)?
I rapporti che abbiamo con gli enti pubblici sono diversi ed in particolare sono quelli istituzionali con il Ministero della Salute con il centro nazionale trapianti e con l’AIFA finalizzati a sensibilizzare i decisori sull’importanza delle malattie epatiche in Italia ed alla promozione di programmi di ricerca epidemiologica e clinica. Altri rapporti istituzionali sono quelli con la società scientifica europea di epatologia EASL.
L’AISF veramente ritiene che, soprattutto nell’epatite C sia utile uno screening di massa?
L’AISF non ritiene che sia necessario uno screening di massa ma sostiene che la strategia per l’identificazione dei portatori passa attraverso lo screening delle persone ad alto rischio di infezione. Oltre ai soggetti con alterazione delle transaminasi (gli enzimi epatici in grado di identificare un danno a livello del fegato), dovrebbero sottoporsi ai test sierologici per l’epatite B e l’epatite C i familiari e i partner sessuali di persone infette, i tossicodipendenti, i detenuti nelle carceri, gli immigrati da aree ad alta prevalenza di HBV e HCV, le persone sessualmente promiscue, quelle con infezione da HIV, i figli di madri portatrici, gli operatori sanitari, gli emodializzati, coloro che si sono sottoposti a tatuaggi o piercing in ambienti a basso standard di sterilizzazione e coloro che hanno ricevuto terapie invasive mediche, chirurgiche e odontoiatriche in Paesi in via di sviluppo. Inoltre, dovrebbero sottoporsi al solo test anti-HCV coloro che hanno ricevuto trasfusioni di sangue o trapianti d’organo prima del 1992 e gli emofilici che abbiano ricevuto terapie con emoderivati prima del 1987. L’elenco dettagliato di queste categorie è riportato in un recente documento congiunto dell’European Liver Patients Association (ELPA) e dell’European Association for the Study of the Liver (EASL) e in altri documenti di società scientifiche e Istituzioni del nostro Paese. Purtroppo gli esperti in questo campo sono concordi nel rilevare che nella quasi totalità dei Paesi sviluppati la scarsa conoscenza e la sottovalutazione dei rischi abbiano limitato l’efficacia delle misure per l’identificazione dei soggetti a rischio. Da qui la necessità di un forte impegno da parte delle Istituzioni al fine di promuovere nella popolazione adeguati interventi di informazione e di sensibilizzazione.