Mangiare non significa solo appagare la sensazione di fame ma è anche convivio - nel senso latino del termine - piacere, consolazione, rifugio. L’intervista alla Prof.ssa Grazia Aloi, Specialista in Psicologia e Psicoterapia e Sessuologia.
Dottoressa, può illustrarci quali sono i significati psicologici del cibo?
Inizierei con il dato di realtà più importante, ancor prima dei significati etimologici e psicologici: mangiare è uno dei più importanti atti dei viventi: se non si mangia, si muore; infatti nella scala dei bisogni primari assolutamente da soddisfare vi è la necessità di nutrimento e quindi quella di avere cibo, dopo viene - in una scala del mangiare - la percezione fisiologica del senso di fame e il desiderio (quindi al di là del bisogno) di dare senso e significato all' appagamento del bisogno. Dunque: bisogno di mangiare e desiderio di mangiare.
Affinché ci sia la percezione del bisogno di nutrimento occorre che i centri cerebrali deputati alla sensazione di fame siano integri, e affinché ci sia il desiderio occorre che l'individuo costruisca un significato interiore psichico sia all'atto volontario del mangiare sia al cibo quale soggetto-oggetto dell'atto.
La distinzione mi sembra importante non già per pedanteria (sia semiotica, ossia del dare un "segno", una "cifra" soggettiva al mangiare sia epistemologica, ossia della importanza relativa alla conoscenza empirica, scientifica del mangiare), ma - essenzialmente - per dare una risposta maggiormente pertinente all'attribuzione di significati psicologici.
Certo, mangiare è tutto ciò che la derivazione latina ci tramanda, ma non solo quello già nominato nella domanda: c'è di più e credo che sia quel di più che costituisce il più preciso significato del mangiare, ossia mangiare significa per chiunque: mordere, divorare (da mandere e manducus) e quindi incorporare e tutto ciò può essere fatto convivialmente oppure no, con piacere oppure no, come forma consolatoria oppure no.
Fatto sta, che mangiare significa - ripeto, inconsciamente per chiunque - l'atto del 'metter dentro', dell'incorporare ('cibo'), cibo tra parentesi e tra virgolette perché cibo è tutto, e, di conseguenza, è il 'permesso' che ognuno (si) dà di entrare/far entrare dentro di sé.
Con tutte le metafore e i piani simbolici possibili ed immaginabili, si pensi anche al parallelismo tavola-letto.
Dunque il cibo assume valenze che vanno oltre il "semplice" nutrimento. Ultimamente, ad esempio, si sente parlare spesso del cosiddetto comfort food: quali effetti può avere il cibo sull'umore?
Il comfort food, o cibo consolatorio o cibo per l'anima, ha effetto sull'umore nella misura in cui l'umore ha bisogno di essere confortato, consolato e al di là dei cibi serotoninergici (ossia in grado di scaturire attivazione di serotonina, ormone del benessere, quali il cioccolato) ogni cibo è confortevole per chi lo consideri tale. Il latte dell'infanzia, la ciambella della nonna, il ragù del papà, la fettina panata con patatine fritte della domenica... Ognuno ha il suo cibo. Dovrebbe però essere evidente che non è il cibo in quanto tale che consola, quanto l'attribuzione psicologica del significato soggettivo, che può variare da situazione a situazione, perciò è 'umorale' e può pertanto sia consolare per una nostalgia sia premiare per una situazione ritenuta premiabile.
E sull'amore? Esistono realmente cibi afrodisiaci?
Sinceramente non lo so, penso di sì; pare che ostriche, caviale e champagne lo siano. ma forse lo è ancor più un bel panino con il salame o con la mortadella mangiato con il gusto di fare l'amore. E dunque, anche in questo caso ciò che conta è la proprietà intrinseca attribuita psicologicamente al cibo piuttosto che le reali proprietà , senza contare l'atmosfera, il momento magico in cui si consuma 'quel' cibo. Secondo me, afrodisiaco è tutto ciò che mette un gusto in più nella coppa della macedonia della sessualità.
Ma il cibo non ha solo accezione positiva. Spesso infatti, in alcune situazioni patologiche quali i disturbi del comportamento alimentare, ad esempio, il cibo si associa ai sentimenti negativi di rabbia, senso di colpa, tristezza, frustrazione. Quali sono i segni e i sintomi che lasciano presagire rapporto distorto con il cibo?
Innanzitutto l'evidenza del fisico, la sua magrezza o la sua grassezza, frutti del comportamento alimentare assunto, poi (forse un po' più nel senso psichiatrico del termine) l'umore depresso verso la voglia di non vivere. Trattare male il fisico, con qualunque mezzo, è sempre una punizione per qualcosa e quindi lo si mortifica, lo si rende 'morto' a volte anche realmente attraverso il suicidio. Una forma massima e grave sia di Anoressia che di bulimia può condurre alla morte, quindi non mangiare o mangiare moltissimo ha a che vedere con la sfida vita-morte: si instaura innanzitutto questa sfida su chi sia più forte, se il fisico a resistere nonostante tutto o la volontà di supremazia.
E quando c'è desiderio di sfida c'è, come dice lei, rabbia, senso di colpa, frustrazione ed altro ancora; c'è il desiderio di far(si) del male. Ma in genere, come in ogni mortificazione è all'altro che si vorrebbe far male e il sentimento viene, per più motivi, rivolto verso di sé, quindi vi è un'aggressività auto diretta piuttosto che etero diretta. E allora come segno e Sintomo si deve osservare il comportamento in genere, non solo quello alimentare: se aggressivo (o passivo, è la stessa cosa) oltre i limiti della comune tolleranza e della comune interpretazione, bisogna pensare che qualcosa non va.
Il rapporto distorto con il cibo è già esso stesso un segno, un sintomo, dunque non è lì - nel comportamento alimentare - che occorre agire (se non nella misura di INTERVENTI necessari per salvare la vita), bensì sulla motivazione psicologica sconosciuta al soggetto del bisogno di umiliare, ferire, mortificare il corpo.