La Sclerosi Multipla è una malattia che fa paura: colpisce le funzioni nervose quindi le basi fondamentali della nostra vita di relazione, è imprevedibile quanto ad esordio e destino, è priva di un chiaro meccanismo causale, quindi sfugge alle ipotesi di terapia mirata a sconfiggere razionalmente i suoi ingranaggi.
La tensione collettiva suscitata dall'incombenza accidentale di questo tipo di morbo induce nell'opinione pubblica un surplus di aspettative nei confronti della ricerca scientifica, fino a farle assumere le sembianze del deus ex machina le cui doti salvifiche sconfinano nelle capacità messianiche.
Le ricerche di Paolo Zamboni sulla connessione tra insufficienza venosa cerebro-spinale cronica (CCSVI) e Sclerosi Multipla sono raccolte in una pregevole serie di pubblicazioni su autorevoli riviste scientifiche internazionali. Da esse emergono, in sostanza, le seguenti proposizioni di fatto:
- in un certo numero di pazienti affetti da SM è stata riscontrata questa condizione di CCSVI.
- Esiste un legame genetico tra le due condizioni, cioè alcuni geni che predispongono allo sviluppo della SM sono portati anche dai pazienti con CCSVI.
- Alcuni studi 'pilota' mostrano dei vantaggi clinici (cioè sullo stato soggettivo del paziente e sul suo stato obiettivo visto dal medico) e strumentali (RM e potenziali evocati) in pazienti trattati con intervento di riduzione chirurgica della pressione venosa encefalica, intervento relativamente poco invasivo e rischioso (palloncino inserito nelle vene encefaliche).
- Non sono tuttavia stati ancora prodotti studi 'controllati', cioè svolti secondo il metodo canonico del confronto tra gruppi omogenei e con il metodo del doppio cieco tra trattamento e placebo.
A questo punto si sono sviluppati diversi centri che offrono l'opportunità di praticare quest'intervento e i mezzi di informazione si sono adoperati nell'ampliare la diffusione della notizia: con un intervento chirurgico la SM si può curare.
La polemica di cui sopra nasce nel momento in cui enti pubblici e associazioni di interesse socio-sanitario vengono investite dalla richiesta dei malati e/o dei loro familiari di rendere immediatamente e universalmente disponibili le nuove cure offerte dalla ricerca, nel sacrosanto nome del diritto alla salute inviolabile, improcrastinabile e, soprattutto, gratuita.
Gli enti, da par loro, cercano tuttavia di indagare per sapere se queste nuove proposte abbiano un valore scientifico, perché è loro responsabilità offrire al pubblico un presidio terapeutico sicuro (sia nel senso dell'efficacia sia in quello della pericolosità). Con quali mezzi le indagini vengono condotte? Con quelli offerti dal metodo scientifico internazionalmente riconosciuto, che si avvale di regole precise:
- l'efficacia della terapia avvalorata da studi controllati (vedi sopra).
- Il buon rapporto rischi-benefici della terapia (ad esempio il taglio della testa per la cura dell'emicrania è da bocciare).
- Un verosimile modello esplicativo del meccanismo d'azione della terapia
- La sostenibilità dei costi socio-economici della terapia.
Nel primo punto sono concentrate le maggiori controversie: se l'acqua di Lourdes ha fatto guarire il cognato di Caio, perché lo Stato non deve finanziare i viaggi in Francia a tutti i malati? Perché, essendo il miracolo appannaggio della benevolenza del Padreterno e non conoscendo i Suoi disegni a priori, non abbiamo nessuna garanzia che anche il cognato di Sempronio possa guarire.
Il metodo dello studio controllato, anche se non si basa su un modello di certezza matematica, affida l'efficacia ad un criterio statistico. Se la probabilità che il potere dell'acqua di Lourdes sia casuale fosse inferiore allo 0,05 per cento (la famosa p) nessuno Stato al mondo potrebbe negare le spese del treno e neanche i pernottamenti in albergo, e anche il Vaticano risolleverebbe non poco i recenti cali di consenso nell'opinione pubblica.
Nel secondo punto si può 'sguazzare' più agevolmente: in genere il ricercatore che propone una terapia innovativa si guarda bene dal prospettare pratiche rischiose o troppo cruente. Nonostante ciò è vero che ancora molte delle prassi mediche sono zeppe di effetti indesiderati e di incidenti di percorso. Molte scelte sono effettivamente frutto di scarsa propensione ad abbracciare nuove proposte, vuoi per la pressione esercitata dai detentori privati di monopoli farmaceutici, vuoi per la pigrizia di molti colleghi 'anziani' nel mettere in discussione le proprie abitudini e nell'aggiornarsi scientificamente, vuoi anche perché, e questo mi sembra il caso di cui stiamo discutendo, le prospettive terapeutiche, per quanto suggestive e razionalmente fondate, sono semplicemente un po' troppo immature.
Il terzo punto è, nonostante quello che si pensi, il meno determinante. Spesso, quando viene somministrato un farmaco piuttosto che una pratica chirurgica o fisiatrica, il criterio che guida il medico non deriva tanto dalla conoscenza precisa del meccanismo d'azione della terapia quanto dalla sua efficacia riconosciuta. Ciò deriva da un giusto senso pratico, unito all'amara ammissione della nostra ignoranza. Tuttavia è chiaro che se un atto medico contiene in sé una logica, per quanto incompleta, la sua amministrazione risulta molto più agevole, controllabile e anche piacevole: una cosa è guarire una persona eseguendo a memoria rituali misteriosi pur con una ragionevole speranza di successo, altra cosa è agire sulla materia biologica con la padronanza e la capacità previsionale di un artigiano che ripara un oggetto.
Ma è proprio su questo punto che sollevo le mie perplessità rispetto alla teoria proposta: il meccanismo della stasi venosa come elemento causale della SM mi sfugge totalmente. A parte la considerazione sul fatto che solo una parte dei pazienti con SM sviluppano la CCSVI e che molti pazienti con CCSVI non hanno la SM, la suggestione proposta da Zamboni circa il ruolo dell'accumulo di ferro secondario alla stasi venosa mi pare poco verosimile.
Se così fosse sarebbe difficile assistere ad un miglioramento dai sintomi della SM in seguito alla decompressione venosa; se il sovvertimento immunitario alla base della SM fosse il risultato di un'anomala interazione tra effettori immunitari (linfociti e/o immunoglobuline) e molecole dei tessuti nevrassiali alterati dal ferro, questa certo non verrebbe facilmente e rapidamente meno una volta rimossa l'ipertensione venosa.
Che d'altra parte la SM sia espressione di un sovvertimento immunitario del compartimento intratecale non credo sia in discussione. Se l'intervento decompressivo sortisce un miglioramento delle condizioni neurologiche del paziente non potrebbe essere un fatto indipendente dalla presenza della SM? Mica sta scritto da qualche parte che uno sia ammalato di una sola malattia. Nulla vieta anzi che il beneficio apportato ad una malattia non possa indirettamente giovare ad un'altra anche se associata solo casualmente alla prima.
Come dire, banalmente, se hai insieme mal di piedi e mal di testa, cambiandoti le scarpe risolvi il mal di piedi e, siccome, stai un po' meglio, anche il mal di testa si attenua. Ma questo non ci autorizza a pensare 'tout court' che la cura della SM sia la decompressione delle vene cerebrali .
Il quarto e ultimo punto è quello più 'politico'. Ogni società, più o meno democraticamente, esprime i propri valori esistenziali attraverso delle priorità; se gli ateniesi impiegavano le loro energie nelle arti e nella filosofia, gli spartani dedicavano la loro vita all'arte della guerra. Molti paesi stranieri, considerati 'avanzati', destinano soldi pubblici per garantire gratuitamente, o quasi, pratiche terapeutiche considerate 'poco scientifiche', almeno rispetto ai criteri sopra enunciati: omeopatia, agopuntura, medicina ayourvedica, ect.
Tutto va bene, finché i soldi ci sono e la coperta è lunga, certo a condizione che una pratica medica dubbia non venga scelta al posto di una sicura (recente il caso di una 'guaritrice' giustamente condannata per aver fatto sospendere, con esito mortale, la terapia insulinica ad una diabetica). Quando invece, com'è condizione endemica in Italia, la coperta è corta, scoppiano i 'casi Di Bella'.
Ma in questi frangenti la scienza non aiuta più: la virtù di un popolo si misura dall'educazione dei suoi esponenti, dal suo grado di consapevolezza del mondo (compresa quella minima conoscenza del metodo scientifico che dovrebbe essere insegnato a tutti nelle scuole pubbliche) e, soprattutto, dalla sua capacità di scegliersi dei buoni e onesti dirigenti.