L'impostazione metodologica della medicina occidentale moderna è stata per molti secoli incentrata sul percorso conoscitivo lineare di causa ed effetto.
La validità di quest'approccio è stata suffragata da svariati modelli di patologie, a cominciare da quelle traumatiche e, in misura storicamente eclatante, da quelle infettive dove il riconoscimento dell'agente 'causale', invisibile e perfido parassita, ha permesso all'umanità di debellare terribili epidemie che decimavano ad ondate intere popolazioni.
Questa visione delle cose è tutt'ora così pregnante e densa di comune buon senso da essere invocata soprattutto dai pazienti (“dottore, cosa ho? Qual è la causa?) oltre ad avere assunto un ruolo cardine in alcune discipline applicate, soprattutto nella medicina legale. Tutto è sembrato andar bene così fino alla metà del secolo scorso: i positivisti inglesi e francesi scrivevano ammirati libri intitolati 'La certezza della medicina', la sconfitta di tutti i mali era già solo una questione di tempo, la natura era là in attesa di essere definitivamente denudata dalla mole di nuove informazioni sulle cause delle sue deviazioni.
Invece, così come d'altra parte stava succedendo in molte altre discipline, ad un certo punto compaiono delle strane eccezioni: malattie molto simili a morbi, di cui si conosceva già l'agente causale, mostravano di sfuggire all'applicazione del medesimo percorso diagnostico e terapeutico: condizioni di esposizione massiva al medesimo agente patogeno potevano risultare perfettamente innocue, laddove al contrario malattie devastanti sembravano emerse dal nulla; in altre parole, ci si è progressivamente resi conto che il modello interpretativo adottato era troppo semplice per mantenersi valido in tutte le condizioni e che dovevano quindi essere invocati meccanismi naturali complessi*, del tutto ignoti ma così potenti da turbare la logica linearità delle nostre deduzioni.
Sono in quei tempi nate tre scienze biologiche che avrebbero poi travolto gli argini della medicina 'classica', fino ad allora cosiddetta 'riduzionista': l'endocrinologia, l'immunologia e la neurofisiologia. A queste si è aggiunta poi la genetica, che rocambolescamente aveva in un primo tempo portato acqua al mulino dei fautori della linearità causa-effetto, per poi tramutarsi nel ricettacolo di tutte le più ardite teorie sulla complessità e variabilità dei sistemi viventi.
Questo preambolo vuole colpire il nucleo della problematica sollevata dalla sindrome da stanchezza cronica (Chronic Fatigue Sindrome, CFS in Letteratura), problematica comune a svariate altre patologie croniche nei nostri tempi, quali ad esempio la fibromialgia o la sindrome soggettiva post-traumatica (quella successiva al 'colpo di frusta', per intenderci).
Le definizioni ufficiali della CFS, basate su un criterio clinico, sono fondamentalmente quelle del '91 e del '94, rispettivamente stilate da una commissione inglese ed una americana, il cui cardine è in sostanza quello per cui la condizione di stanchezza cronica, per essere così definita non deve essere riconoscibile come conseguenza di uno stato morboso noto.
È cioè una definizione 'in negativo': solo se tutti gli accertamenti strumentali, bioumorali e istologici sono nella norma, il paziente che da più di 6 mesi accusa una condizione di continua spossatezza, associata a riduzione dell'iniziativa e a sintomi di generica infiammazione generale (febbricola, cefalea, linfonodi tumefatti, dolori articolari, ect) può essere considerato affetto da CFS.
Quindi, mancando per definizione di qualsiasi appiglio 'causale', le terapie proposte sono giocoforza molteplici e incerte (dalla terapia occupazionale alla somministrazione di 'ricostituenti'). Larga parte dell'interpretazione della malattia, comprensibilmente, è stata incentrata sul punto di vista psichiatrico, vista la notevole sovrapponibilità tra questa sofferenza e alcune condizioni di depressione del tono dell'umore; la differenza tra le due malattie è tuttavia palpabile, anche se tra loro possono sussistere delle relazioni.
Sta di fatto che taluni sono arrivati a negare (semplicisticamente?) l'esistenza stessa della CFS rubricandola come una variante di un disturbo psichiatrico, mentre altri la considerano così distante dalla psichiatria da averla inserita tra malattie di tutt'altri sistemi anatomo-funzionali (io ad esempio l'ho studiata per la prima volta in un testo di neurologia sotto il capitolo 'malattie del sistema nervoso vegetativo').
È quindi l'incapacità di trovare una 'causa', un organo leso, un virus o anche solo un 'marker' biologico che tuttora, nonostante gli enormi progressi anche metodologici della medicina contemporanea, ci frena e ci disorienta. Senza contare poi il fatto che i pazienti affetti da CFS sono tormentati ulteriormente dall'incertezza della propria condizione, dalle ingiurie più o meno esplicite rivoltegli nell'ambiente di lavoro e da tanti esponenti della classe medica poco propensi alle disquisizioni epistemologiche o, peggio ancora, dagli innumerevoli tentativi di truffa escogitati ai loro danni dai maghi e santoni delle 'medicine alternative'.
Personalmente non ho un'idea precisa sulla natura di questa malattia; se l'avessi avrei cercato di portare le mie ipotesi sul piano scientifico. Certamente mi colpisce l'ambito di sistemi regolatori che questa condizione sembra coinvolgere: il sistema immunitario, il sistema nervoso somatico e vegetativo, la regolazione endocrina dei ritmi circadiani (sonno e fatica sono entrambi fisiologicamente regolati da diversi ormoni).
Sono quindi convinto che in quest'ambito, come ormai appare comune a tutte le manifestazioni mediche se analizzate profondamente, l'integrazione delle nostre conoscenze in un modello conoscitivo di multifattorialità e complessità sarà l'unica via per progredire nelle nostre capacità di cura.
* il concetto di complessità non è uguale a quello di complicatezza: un orologio a molle può avere ingranaggi molto complicati, ma tutti legati da un meccanismo di causa-effetto tra loro. Un sistema complesso è invece un sistema in cui nessun elemento può essere identificato come necessario ad un altro singolo elemento ma la cui mancanza può coincidere con il malfunzionamento dell'intero sistema. Modelli di sistemi complessi vengono oggi ampiamente utilizzati in astrofisica, nella fisica delle particelle e anche in molte applicazioni di ingegneria, giovandosi di matematiche costruite 'ad hoc'.