Sulla nostra testa c'è un vero e proprio groviglio di malattie dolorose possibili. Le statistiche internazionali stabiliscono che il dolore al capo rappresenta di gran lunga la più frequente motivazione di intervento medico in assoluto, superando patologie diffusissime come il diabete, l'infarto e i dolori addominali.
La motivazione naturale di tanta abbondanza di dolori è insita nella stessa struttura del capo, che è la regione anatomica più diversificata dell'organismo: in altri termini, se in un piede riconosciamo grossolanamente un tessuto cutaneo-sottocutaneo, un tessuto osseo, un tessuto cartilagineo, uno fibroso, uno muscolare, uno nervoso e uno vascolare, distribuiti secondo un'architettura generale di tipo longitudinale a strati sovrapposti, nella testa il modello strutturale in cui i tessuti si articolano è frutto di giustapposizione di elementi modulari già preformati lungo linee evolutive precedenti.
Per fare un esempio, l'apparato dell'udito, che nel capo di un uomo adulto appare come parte integrata ed indistinguibile dal resto del cranio, è in realtà proveniente dallo sviluppo di parti di embrione inizialmente distanti che finiscono per convergere l'uno vicino all'altro, assumendo alla fine una struttura conglomerata.
Una così diversa composizione, architettura e derivazione tessutale di zone della testa apparentemente omogenee moltiplica di fatto i percorsi che i meccanismi patogenetici del dolore cronico possono intraprendere. Così è pratica clinica comune riscontrare dolori alla testa in cui il medico riconosce contemporaneamente una componente vascolare, una osteo-mio-fasciale, una neuropatica, una artrosico-degenerativa, al di là delle classificazioni 'ufficiali' delle cefalee che il medico, e in particolare il neurologo, è tenuto a conoscere a memoria per districarsi nelle diagnosi e per applicare il tipo di terapia più consigliato dalle 'linee guida'.
L'argomento di discussione, a mio avviso, è proprio questo: sono sempre valide le classificazioni attualmente vigenti sulle varietà di dolori al capo e, se pure lo fossero, ha senso continuare a classificare nuove varietà di mal di testa sulla semplice base di una variazione di caratteristiche cliniche (come ad esempio, appunto, pensare di coniare una varietà di 'cefalea da atterraggio' piuttosto che una 'cefalea da puzza di olio rancido', e via classificando)?
La più importante classificazione generale del 'mal di capo' (che comprende emicranie, cefalee, nevralgie e altri disordini dolorosi non meglio identificati) è stata fatta da un organismo internazionale detto International Headache Society (IHS) a partire dal 1988, le cui successive rimodulazioni non ne hanno complessivamente stravolto l'impianto di fondo.
Molto sinteticamente, i suddetti tipi di mal di testa sono distinti in 'primari' e 'secondari': per 'secondaria' si intende una condizione per cui il mal di testa è riferibile ad un'altra condizione patologica (dalla febbre alla sinusite, dal tumore cerebrale all'infiammazione di un'arteria). Le forme primarie comprendono diverse sintomatologie tipiche, che consentono di essere inserite nella classificazione (per fare un esempio, l'emicrania con aura o la cefalea a grappolo) e quindi sottoposte alle terapie che le ricerche farmacologiche e cliniche sfornano continuamente; le forme secondarie dovrebbero semplicemente risolversi guarendo (dove possibile) la malattia che le ha provocate.
Tutto andrebbe benissimo se non fosse che: a) le terapie per le forme primarie sono attualmente ancora poco soddisfacenti, se va bene il paziente riesce a sollevarsi della sofferenza cronica, considerando insieme frequenza degli attacchi e intensità del dolore, di un 55-60%, praticamente non si prevede mai una guarigione completa; b) anche stando alle statistiche epidemiologiche fedeli a quest'approccio squisitamente clinico (la cosiddetta 'evidence based medicine') il 13° tipo di mal di testa redatto nell'elenco HIS, definito come 'cefalea non classificabile' assume proporzioni quantitative tali da divenire un po' imbarazzante rispetto allo stesso impianto teorico dell'elenco: è un po' come se dovendo fare un censimento della popolazione mondiale dicessi “ci sta la famiglia di Pino, la famiglia di Giulio, e poi tanti altri”.
Aggiungo un po' maliziosamente che la lista dei pazienti appartenenti al gruppo 13 tende ad ingrossarsi quanto più è approfondita la visita medica, tenendo conto minuziosamente delle reali caratteristiche presentate dal paziente ed evitando di inserire forzosamente il paziente dentro una categoria solo perché risponde ad alcuni dei criteri d'inclusione delle categorie più 'potenti'. Spiego con un esempio: le emicranie 'classiche' (con o senza aura) sono caratterizzate dalla forte predominanza femminile, da un'età giovanile, da una decisa predisposizione familiare e da un preferenziale esordio degli attacchi al mattino.
Bene, mi arriva in ambulatorio una giovane, le cui madre e sorella soffrono di mal di testa, ma che ha dolori esclusivamente notturni, bilaterali (quindi non emicrania in senso stretto) e che soffre di iperplasia dei turbinati paranasali dall'età di 8 anni. Se io la voglio inserire nel grande gruppo delle emicranie classiche mi baserò sui dati riguardanti il sesso, l'età e la familiarità.
Ma così rischio di fallire l'opportunità di guarire quella ragazza, dandole peraltro una terapia farmacologica del tutto inutile, mentre è mia personale esperienza il fatto che risolvendo problematiche otorinolaringoiatriche croniche si può giungere alla risoluzione completa di una cefalea persistente. Detto questo, non ho alcuna intenzione di polemizzare con le classificazioni nosografiche delle malattie, che sono oltremodo utili alla pratica medica dei colleghi di tutto il mondo e sono la principale guida per gli sforzi della ricerca scientifica clinica.
Sostengo solamente che l'azione del medico dev'essere condotta prima di tutto sulla scorta di un ragionamento fisiopatologico (“quale potrebbe essere il reale meccanismo che sostiene questo disturbo, come funziona questo paziente?) e poi, solo poi, confrontare le proprie deduzioni con le similitudini che il quadro clinico in oggetto potrebbe avere con gli appartenenti ad una certa 'categoria' di malati.
In questo modo credo che il medico non avrà alcun bisogno di aggiungere alla propria lista di definizioni cose mandate a memoria come la 'cefalea da atterraggio': per capire e curare bene un paziente con questo disturbo gli basterà sapere cosa può succedere a persone come lui che (per motivi da indagare) soffrono di particolare sensibilità alle brusche variazioni pressorie idrostatiche intra-extracraniche.