DCA cos'è?
Il più importante tra i manuali diagnostici, il DSM-5, al quale i professionisti a livello internazionale si riferiscono per diagnosticare i disturbi psicologici e psichiatrici definisce i disturbi del comportamento alimentare (DCA) come “caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione o di comportamenti collegati con l’alimentazione che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che danneggiano significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale”.
Il manuale identifica le seguenti categorie diagnostiche:
- Pica
- Disturbo di ruminazione
- Disturbo da evitamento/restrizione dell’assunzione di cibo
- Anoressia nervosa,
- Bulimia nervosa
- Disturbo da alimentazione incontrollata
- Disturbo della nutrizione o dell’alimentazione con specificazione
- Disturbo della nutrizione o dell’alimentazione senza specificazione.
Con queste categorie riusciamo ad inquadrare tutti i disturbi che già a partire dalla prima infanzia possono presentarsi.
Bisogna specificare però che le categorie diagnostiche non ci dicono nulla sulla persona che soffre di un disturbo del comportamento alimentare, ogni persona è più di una diagnosi; quando diciamo “la ragazza soffre di anoressia nervosa” non diciamo nulla sul significato profondo che il disturbo acquisisce per questa giovane paziente, anzi a volte l’abuso della diagnosi può in chi è sofferente indicizzarlo spingendolo a cronicizzare il disturbo piuttosto che ad uscirne.
Terapia individuale, familiare e nutrizionale per la cura dei disturbi del comportamento alimentare
Ovviamente la diagnosi clinica è utile per poter parlare tra colleghi professionisti e definire quelle che sono le linee comuni di questo disturbo. Definire a volte permette di sapersi orientare e controllare l’ansia ma non è la cura.
L’intervento sui disturbi alimentari è complesso e spesso per una buona riuscita necessita della congiunzione di una terapia individuale e familiare, oltre che nutrizionale. La terapia individuale è utile per lo sviluppo individuale della persona; è importante avere una terapeuta che diventa un punto di riferimento interiore nei momenti difficili che la paziente dovrà affrontare; mentre gli incontri familiari sono utili ad elaborare nuove modalità relazionali più funzionali per tutta la famiglia e utili a garantire il giusto sostegno emotivo della persona sofferente, aiutandola ad uscire dalla stasi evolutiva in cui si trova e in cui è sospesa tutta la famiglia.
Disturbi del comportamento alimentare: qual è il significato relazionale?
Un disturbo del comportamento alimentare significa infatti una stasi allo sviluppo, ovvero l’impossibilità di crescere ed evolvere; questo vale praticamente quasi sempre per tutte le varianti dei disturbi; è come se la persona che ne soffre manifesta un’impossibilità di fare un salto evolutivo ad esempio: il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza che implica appunto l’ingresso nel mondo degli adulti, e quindi la necessità di un confronto atto alla costruzione dei propri valori e interessi, oltre che la spinta sessuale con la conseguente scelta dei primi partner.
L’insorgere di un disturbo alimentare ha quindi quasi sempre un significato relazionale che va colto, capito e sviscerato. Ad esempio cosa il sintomo vuole comunicare all’interno della sua famiglia? alla madre, al padre, ai fratelli e sorelle? E così via.
Nella terapia sarà importante ripercorrere la storia della famiglia creando e generando una nuova narrativa, una nuova storia condivisa e costruita dalla voce di tutti i familiari. Spesso le famiglie raccontano di se stesse “storie” che hanno sempre la stessa trama; la terapia permette di cambiare trama, creando capitoli all’interno di un percorso che sembrava già scritto ma che era solo la lettura circoscritta di pochi o di un determinato tempo storico.
Un altro aspetto importante sarà capire a partire da quale evento è insorto il disturbo alimentare e come questo si collega al blocco evolutivo della/del paziente.
Oltre la diagnosi quindi esiste la persona e questa è unica; bisogna ricordare che soffrire non è una vergogna ma un dono perché è solo attraverso la fragilità che incontriamo il vero volto dell’essere umano e dell’essere noi stessi umani e creativi. È nel porgere una mano all’altro che incontriamo la sua forza e il suo bisogno ed è solo attraverso questo contatto intimo e fiducioso con l’altro che possiamo arrivare all’essenziale, e quindi a noi stessi con l’altro.