Considerazioni metodologiche alla luce della medicina basata sulle evidenze su una controversia clinica che dura da più di 20 anni
L'ipotesi della curva a J rappresenta una delle questioni più dibattute nel recente, ma anche attuale, trattamento dell'ipertensione arteriosa. I.M. Stewart, in un articolo pubblicato nel 1979 su Lancet, propose l'esistenza di una relazione tra la riduzione dei valori pressori e l'infarto miocardico in pazienti con ipertensione grave in trattamento (1).
Stewart si riferiva ad un primo infarto del miocardio in soggetti ipertesi, e con ipertensione grave, in Terapia farmacologica, circoscrivendo così in modo molto preciso l'ambito in studio. Giova subito ricordare che l'osservazione di Stewart emergeva da uno studio "case series", vale a dire uno studio osservazionale, non prospettico, nè specificamente disegnato per saggiare tale IPOTESI. Il disegno dello studio rappresenta l'elemento metodologico cardine per il ricercatore interessato a studiare un'ipotesi clinica; una domanda formulata in termini rigorosi, focalizzata a esaminare un problema CLINICO di peso é, come insegna il metodo della Medicina Basata sulle Evidenze, la base stessa dell'agire del ricercatore, del clinico e dell'epidemiologo (2, 3).
Nel caso del controllo pressorio, e dell'ipotesi della curva a J in particolare, il quesito clinico di interesse é se una riduzione aggressiva (confrontata con una riduzione meno aggressiva) dei valori pressori dia luogo a esiti clinici più sfavorevoli in pazienti ipertesi, e non se l'eccessiva riduzione dei valori pressori sia di nocumento al paziente iperteso. In effetti, nel campo della terapia dell'ipertensione, il rischio di eccesso di trattamento (anche involontario) non pare essere un problema di rilievo particolare; i veri problemi sono quelli del trattamento insufficiente, quando non scorretto, e della scarsa adesione alla terapia del paziente iperteso. Per avere, o perlomeno per cercare di trovare, una risposta razionale, esauriente e fondata su evidenze solide, occorre identificare gli studi clinici adeguati. L'associazione tra bassi valori pressori diastolici ed esiti clinici sfavorevoli deve essere verificata e dimensionata, valutandone la forza e la costanza in studi diversi, ma tutti di elevata qualità. Forza e costanza dell'associazione sono dunque requisiti essenziali per parlare con cognizione di causa di associazione. Per definire poi un nesso di causalità, devono essere soddisfatti dei criteri minimi quali la presenza di un gradiente di rischio con l'aumentare della durata e dell'intensità dell'esposizione; il verificarsi di una associazione costante e quantitativamente confrontabile da studio a studio analizzato; l'esistenza di una associazione temporale sequenziale, vale a dire che l'esposizione deve precedere l'esito osservato; l'imprescindibile necessità di una spiegazione fisiopatologica congrua, ossia il rintracciare una plausibilità biologica perl'associazione osservata. Al lettore di Evidence-Based Medicine non sfuggirà che quelli sopra elencati non sono altro che i requisiti necessari per trasformare un elemento di rischio in un fattore di rischio in senso pieno.
In effetti, se si confrontano le frequenze di eventi in pazienti in terapia con livelli di pressione diastolica inferiori o uguali a 90 mmHg con le frequenze di eventi in pazienti con valori pressori diastolici superiori a 90, come emerse dagli studi disponibili in letteratura, si può apprezzare come il rischio relativo (RR) sia superiore a 3 solo nello studio di Stewart, che risale a più di 20 anni fa (4, 5 ,6). Tre, è bene ricordarlo, rappresenta la soglia sopra cui si può parlare di una reale associazione tra esposizione e aumento del rischio per l'esito studiato in studi osservazionali ("case series", caso-controllo, coorte) (2). Negli altri studi (5, 6) il RR si aggira intorno ad 1, così indicando una forza molto limitata nell'associazione tra "bassa" pressione diastolica, esiti clinici sfavorevoli e prognosi a distanza. In particolare l'RR calcolato per lo studio di J. Merlo (6), studio di coorte basato su popolazione e comprendente 484 pazienti maschi, é risultato di circa 1,7 per il confronto tra il gruppo di pazienti con pressione arteriosa diastolica inferiore o uguale a 90 mmHg (267 soggetti), e quello con pressione superiore a 90 mmHg (217 soggetti), suggerendo così una debole e non significativa associazione tra "bassa" pressione diastolica e prognosi sfavorevole.
L'ipotesi della curva a J, come sottolineato in apertura, é dunque emersa da un "case series", quindi, un tipo di studio spesso soggetto a errori ("bias") di selezione e di misurazione (7). Gli studi clinici controllati e randomizzati forniscono una evidenza di causalità più solida, per quanto vengano raramente disegnati per valutare il danno (il più delle volte vengono infatti disegnati per valutare il beneficio di un intervento terapeutico).
È vero che l'analisi di sottogruppo può essere impiegata per esplorare l'entità del danno o del nocumento, ma non sono pochi, in questo caso, i "caveat" che tale analisi esige. Ed infatti, per quanto riguarda in particolare l'ipotesi della curva a J nell'ipertensione arteriosa, esiste una netta discrepanza tra la tendenza rintracciata nei sottogruppi, tendenza che indicherebbe in qualche modo la presenza di un aumentato rischio cardiovascolare in soggetti con "bassi" valori pressori diastolici, e l'andamento nelle popolazioni considerate per intero negli stessi studi (6, 7, 8, 9), andamento che depone invece decisamente contro l'esistenza di una curva a J.
Oggi, nel 2000, gli sforzi integrati di medici e pazienti sono volti al raggiungimento del controllo pressorio ottimale. Lo stato attuale dell'arte, e le ultime linee-guida dell'OMS sulla gestione globale del paziente iperteso ne sono la conferma (10), suggerisce di indirizzare dunque la forza dell'alleanza terapeutica medico-paziente verso il miglioramento del controllo pressorio, non solo ai fini della prevenzione dell'ictus cerebrale, ma più in generale di tutte le malattie cardiovascolari e in particolare dell'infarto miocardico.
Questo obiettivo deve essere perseguito avendo presente che il paziente che si incontra quotidianamente in clinica o in ambulatorio raramente ricalca il profilo del paziente arruolato nello studio clinico e che comunque le strategie di intervento devono essere largamente condivise e ritagliate sul singolo paziente che ci troviamo di fronte (11, 12, 13). Tale approccio é garanzia di correttezza etica e metodologica, e contribuisce a fare piena luce su controversie cliniche, quali quella della curva a J, che, sulla base delle migliori evidenze oggi disponibili, non sembrano avere motivo di essere.
Gianfranco Gensini
e Andrea A. Conti
Bibliografia
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- Gensini GF, Galanti G, Conti AA. La medicina basata sulle evidenze: prospettive, applicazioni e confini. Il Policlinico 1998;105:592-601.
- McAlister FA. Using evidence to resolve clinical controversies: is aggressive antihypertensive therapy harmful? Evidence-Based Medicine 1999;4:4-6.
- Cooper SP, Hardy RJ, Labarthe DR, et al. The relation between degree of blood pressure reduction and mortality among hypertensives in the hypertension detection and follow-up program. Am J Epidemiol 1988;127:387-403.
- Merlo J, Ranstam J, Liedholm H, et al. Incidence of myocardial infarction in elderly men being treated with antihypertensive drugs: population based cohort study. BMJ 1996;313: 457-61.
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