Alcuni fatti di cronaca impongono una serena e pacata riflessione su alcuni aspetti della Legge 194 del 22 Maggio 1978. Mi riferisco in particolare all’art.6 della Legge in base al quale “l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, può essere praticata:
- quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
- quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Fin qui nulla da obiettare in quanto non esistono limiti temporali alla interruzione terapeutica della gravidanza sempre che esistano le condizioni che possano determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Ma soprattutto mi riferisco all’art. 7 il quale recita: “...quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’art. 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
In altre parole il ginecologo diventa da un lato un semplice esecutore di una procedura medico-chirurgica richiesta dalla gestante e suffragata da una perizia psichiatrica, dall’altro, quando esiste la possibilità di vita autonoma del feto deve adottare ogni misura per salvaguardare la vita stessa, pur consapevole che il suo intervento spesso risulta inutile se non addirittura dannoso.
E allora mi chiedo:
- cosa s’intende per vita autonoma? Un termine a mio avviso non definito e non definibile, quando sarebbe preferibile parlare piuttosto di capacità di sopravvivenza.
- Qual è il limite di vitalità? Ovvero il limite al di sotto del quale sarebbe sconsigliato l’accanimento terapeutico, mentre al di sopra sarebbe giustificato il trattamento intensivo attraverso cure straordinarie.
A questi due interrogativi la letteratura internazionale sta cercando di dare una risposta sufficientemente esaustiva, identificando nella XXIII settimana l’età gestazionale in cui gli alveoli polmonari, se pur con una notevole variabilità individuale, sono in grado di scambiare ossigeno ed anidride carbonica. D’altronde è ampiamente dimostrato che i nati prima della XXXIII settimana, tranne rarissimi casi peraltro accompagnati da sequele neurologiche devastanti, non hanno alcuna probabilità di vita autonoma.
Concludo affermando che fin quando noi cultori della materia e le Società Scientifiche non avranno definito il confine della vita autonoma, continueremo a registrare eventi drammatici come quello di Firenze del 2007, i cui risvolti etici, morali, religiosi e perché no medico-legali influenzeranno la sofferta decisione sia dei familiari che dei nostri colleghi.