La notizia è di quelle da prima pagina: una donna incinta alla ventiduesima settimana ha deciso di abortire dopo che esami prenatali avevano diagnosticato un’anomalia allo stomaco del feto, poi risultato sano e nato vivo. I tentativi di salvare il bambino in extremis si sono rivelati vani; ciò che è rimasto nei giorni successivi sono stati il silenzio addolorato della famiglia e il rumore della stampa, dell’opinione pubblica, del mondo politico e di quello medico che si sono interrogati sull’accaduto.
Teatro dell’accaduto è stato l’ospedale pediatrico Mayer; gli esami prenatali erano stati effettuati presso il laboratorio dell’Ospedale Careggi di Firenze, già salito alla ribalta delle cronache precedentemente a causa del trapianto di organi sieropositivi.
Secondo quanto dichiarato da Gianfranco Scarselli, direttore del reparto di ginecologia del Careggi, alla donna era stata prospettata la possibilità che il bambino soffrisse di atresia all’esofago, una rara malformazione che colpisce un bambino ogni 3.500. I medici avrebbero consigliato alla donna di sottoporsi ad ulteriori esami per chiarire la situazione, ma lei era stata irremovibile sulla sua decisione di interrompere la gravidanza.
Fin qui la cronaca. Quel che è accaduto dopo è stato un lungo dibattito circa la necessità di impedire che altri episodi simili accadano e sulle possibilità di rivedere il limite della ventiduesima settimana consigliato dalla legge 194 per l’aborto terapeutico.
La Società Italiana Di Neonatologia ha ribadito che le probabilità che un feto nasca vivo alla 23esima/24esima settimana sono molto più alte che alla ventiduesima. Un feto che raggiunge la ventiquattresima settimana ha, inoltre, più chance di sopravvivere se viene curato adeguatamente e tempestivamente perché i suoi polmoni sono ormai maturi.
Ma cosa fare se un feto di 22 settimane nasce vivo dopo un’interruzione di gravidanza? Il confine tra accanimento e cura è sottilissimo e va, secondo gli esperti, definito il meglio possibile. Mentre le società scientifiche si interrogano su come lasciare spazio alla libera coscienza, senza, però, accanirsi su un feto che rischia di sopravvivere pagando con handicap e disabilità la sua nascita prematura, numerose sono le voci del mondo scientifico che chiedono al governo di intervenire abbassando il limite della ventiquattresima settimana, fissato dalla legge 194, alla ventiduesima. In questo modo, le probabilità che a seguito di un’interruzione di gravidanza nasca un feto vitale si riducono notevolmente.
Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’istituto Europeo Di Oncologia (IEO), ex-Ministro della Sanità, è una di queste voci: “praticare l’aborto dopo la ventiduesima settimana di gestazione comporta dei rischi: il bimbo, infatti, può sopravvivere e c’è l'obbligo medico di rianimarlo nonostante l’altissima probabilità di malformazioni permanenti. Penso che sia ragionevole fissare come limite massimo per il cosiddetto ‘aborto terapeutico’ la ventiduesima settimana di gravidanza, invece della ventiquattresima, soglia definita attualmente dall’abituale pratica clinica” ha dichiarato Veronesi al margine della presentazione del suo ultimo libro.