Uno dei più annosi dibattiti della medicina moderna e, in particolare, delle neuroscienze, sta nella distinzione tra cause ed effetti delle manifestazioni morbose complesse.
Quest'importanza trova le sue radici su motivazioni che vanno ben al di là della seppure ovvia e immediata ricerca di un rimedio, basato sull'idea della guarigione attraverso la rimozione della causa del male. La stessa nascita della neuropsichiatria è il frutto di una tensione verso la liberazione di un intero paradigma esistenziale dalla categoria metafisica del 'male spirituale' attraverso la proposizione della malattia della mente quale malattia del cervello, ovvero di una struttura soggiacente alle leggi della fisica e della chimica.
Questa rivoluzione, che ha coinciso ai primi del novecento con lo sviluppo del pensiero positivista, possiede dei significati che risuonano nel profondo la nostra emotività sociale, in un certo senso, la nostra 'eticità'.
Per chiarire meglio, pensiamo a tre diverse 'spiegazioni' per cui un soggetto compia delle azioni abiette e nocive:
- perchè ha deciso arbitrariamente di sottomettersi alla volontà del demonio che lo ha tentato verso il 'male'.
- perchè è stato indotto a nuocere, pur essendo di natura 'buono', dall'ambiente circostante che lo ha condizionato.
- perchè è nato 'cattivo' in virtù di una malattia che ha ereditato oppure ha involontariamente contratto una malattia che lo ha fatto diventare così.
È chiaro che per ciascuna di queste spiegazioni emergono dei campionari di reazioni psico-sociali diverse: nel primo caso la coscienza collettiva sentirà su di sé il desiderio di rimozione del male attraverso l'allontanamento del demonio e/o l'eliminazione dell'individuo 'cattivo'. Corollario a questo sarà il fatto che il rimedio non potrà mai passare attraverso un'azione di 'miglioramento' dell'individuo cattivo, se non attraverso l'intervento di una forza esterna proporzionale e contraria al demonio (l'esorcismo) ma la cui volontà è sovrannaturale e indipendente da quella della comunità (la Divina Provvidenza che concede i poteri all'esorcista).
Nel secondo caso la 'cura' sarà rivolta non già direttamente sull'uomo cattivo, che anzi va salvaguardato perché vittima innocente, ma sulla 'società' perché il miglioramento di quest'ultima potrebbe liberare l'uomo, fondamentalmente buono, dai meccanismi funesti che ne hanno indotto il cattivo comportamento. Corollario a questo sarà un'azione svolta prevalentemente sul piano politico, mentre nel frattempo tutti gli sforzi della comunità saranno tesi alla guarigione ('riabilitazione') del reo.
Nel terzo caso l'imperativo impellente diviene quello di salvaguardare la società degli altri individui, che si presume inizialmente 'sana', dall'azione nociva di un 'disgraziato' che risulta comunque irrecuperabile, per quanto più o meno incolpevole. Le misure ulteriori che la società dei sani potrà intraprendere potranno essere solo successive alla soppressione dell'individuo disturbante, attraverso il riconoscimento e l'estirpazione precoce della 'causa', prima che possa irrimediabilmente colpire qualcun altro. Il corollario decisionale in questo caso sarà, da una parte, il potenziamento degli aspetti repressivi della società (incremento dell'attività di polizia) dall'altra la 'ricerca' delle cause del male al fine di impedirne sul nascere lo sviluppo (possiamo considerare l'eugenetica una punta 'estrema' di questa tendenza).
Queste tre ricostruzioni causali dei 'mali della società' si sono materializzati storicamente in tre distinte correnti ideali: l'integralismo religioso, il socialismo e il liberalismo. Quello che non emerge immediatamente, ma che rimane sottaciuto nel dibattito scientifico precedentemente accennato, è che queste tre tendenze 'motivazionali' hanno in misura diversa infiltrato l'apparente rigore della metodologia di ricerca neuropsichiatrica.
Mentre l'infiltrazione motivazionale 'religiosa' rimane appannata rispetto alle altre due (anche se rispunta sporadicamente in talune enunciazioni teorico-scientifiche dal sapore anti-darwiniano), la lotta motivazionale tra 'socialismo' e 'liberalismo' si rivela ancora fervida, per quanto mascherata. Il passaggio, subdolo e irriflesso, tra motivazione psico-sociale e costruzione di un paradigma fisiopatologico ha trovato terreno nella distinzione tra 'funzionalità' e 'organicità'.
Nella prima riscontriamo l'idea di un sistema strutturalmente intonso ma il cui disturbo è indotto da interazioni ambientali: il soggetto innocente, traviato da una società malsana. Nel retro-significato di 'organico' cogliamo viceversa il destino di una struttura danneggiata, più o meno irrimediabilmente, di cui il soggetto è di fatto 'portatore', al di là del fatto che sia o no 'colpevole'.
La delimitazione tra malattie del comportamento e dell'ideazione su base 'funzionale' od 'organica' è di fatto l'unica linea di confine, più o meno comprensibile, tra la neurologia e la psichiatria. Questa distinzione nasce da un difetto, cioè dall'impossibilità di attribuire una 'causalità' fisico-chimica alle manifestazioni che caratterizzano una parte di questi disturbi, quindi ex-post definiti 'psichiatrici'.
In realtà, come suggerisce la problematica storica sollevata sulla schizofrenia, ancor più dell'argomento di cui sto parlando, l'anoressia, ci sono due tipi di rilievi candidati a risospingere queste entità nosologiche verso la categoria neurologica, cioè 'organica': i dati genetici e i dati morfologici.
Sui primi, di cui l'articolo che sto commentando non fa cenno, sono usciti diversi lavori che attribuiscono un forte ruolo della familiarità nell'epidemiologia dell'anoressia. Il significato, alla luce dell'interpretazione 'organica' o 'funzionale' rimane tuttavia sospeso: se l'incidenza del disturbo, per quanto rilevata distinguendo tra gemelli eterozigoti o gemelli omozogoti, cresce considerando la dimensione familiare, viene contemporaneamente aizzata l'interpretazione dell'impatto ambientale, cioè 'funzionale' (sul ruolo patogenetico dell'ambiente familiare nei disordini del comportamento alimentare c'è una letteratura sconfinata).
Stesso discorso vale per quanto citato nell'articolo. Il rilievo, ottenuto con metodiche neuroradiologiche sia morfologiche che funzionali, di 'disordini' a carico delle connessioni e/o della consistenza volumetrica di aree cerebrali funzionalmente implicate nelle relazioni tra immagine corporea, fenomeni emozionali e cognitivi (cioè, in varie combinazioni, quelle citate nell'articolo) non inficia affatto, anzi in buona parte sostiene l'ipotesi alternativa, cioè che l'attitudine 'disfunzionale', insorta in seguito a perturbazioni ambientali, abbia indotto fenomeni di riorganizzazione 'plastica' delle strutture cerebrali coinvolte.
Mi sembra rispettosamente curiosa la notazione enfatizzata nell'articolo, per cui l'anomalia cerebrale sarebbe stata 'preesistente' allo sviluppo dell'anoressia, a meno di non credere che il ricercatore avesse condotto uno studio così raffinato (e costoso) su giovani sani assolutamente asintomatici per poi osservarne l'eventuale decorso verso una malattia comunque non frequentissima nella popolazione generale.
Sulla base di questa considerazione credo che paradossalmente avrebbe un impatto scientificamente molto più forte il fatto di riscontrare alterazioni morfo-funziali anche in aree del cervello non riferibili a funzioni correlate al disturbo comportamentale dei pazienti anoressici: se si riscontrasse un pattern costante di lesioni, caratteristiche di una malattia, indipendentemente dal ruolo funzionale delle aree cerebrali coinvolte, si potrebbe davvero delineare l'esistenza di un entità squisitamente 'neurologica'.
In conclusione mi sembra di assistere alla riproposizione di una lotta ormai antica, che grossolanamente mi fa pensare alla trama del film con Eddy Murphy 'Una poltrona per due', dove la diatriba tra 'socialismo' e 'liberalismo' si incarna nella scommessa sulla possibilità di riscatto sociale dell'individuo svantaggiato portato fantasticamente sul trampolino del successo. Ma la scienza ha davvero bisogno di sapere se è nato prima l'uovo o la gallina?