La maggior parte dei neonati (97%) non presenta difetti congeniti, cioè anomalie fisiche presenti alla nascita. Un difetto congenito può essere stato ereditato, oppure può essere la conseguenza di infezioni o di esposizioni a sostanze nocive nel corso della gravidanza, ma per la maggioranza dei casi la causa è sconosciuta.
Alcuni di questi difetti congeniti sono dovuti a anomalie cromosomiche, come per esempio la Sindrome di Down. La sindrome di Down è determinata dalla presenza di tre cromosomi 21, anziché due (trisomia 21). Comunemente è chiamata mongolismo ed è caratterizzata da ritardo mentale medio-severo spesso associato ad altre malformazioni, soprattutto del cuore e dell'apparato digerente.
La malattia è un evento casuale che può verificarsi nella gravidanza di ogni donna. Esiste in ogni caso un rischio generico legato all'età della madre: tanto più avanzata è l'età materna quanto maggiore è il rischio di concepire un bambino affetto da sindrome di Down. Ad esempio la probabilità che il neonato sia affetto se la madre ha 30 anni è di 1/800, mentre se ha 40 anni diviene di 1/100.
L'unico modo per escludere con certezza un'anomalia cromosomica è quello di sottoporsi a esami invasivi, come la villocentesi o l'amniocentesi, che comportano il rischio di aborto del 1%. In alternativa esistono alcuni test di screening, che forniscono una stima del rischio personale, cioè quante probabilità vi sono di avere un figlio Down, mediante l'esecuzione di prelievi di sangue (duo-test, tri-test) o esami ecografici (plica nucale).
Nel primo trimestre di gravidanza, tra la 11 e la 13 settimana, si possono effettuare due test di screening: il duo-test e la plica nucale.
Il duo-test consiste in un prelievo di sangue che si effettua alla madre per misurare due sostanze di origine placentare (betaHCG, PAPP-A) che risultano alterate nel 80% dei bambini Down. La plica nucale si effettua tramite ecografia e consta nella misurazione dello spessore esistente tra il piano muscolare e la cute del collo del feto, che risulta ispessita nel 70-80% dei bambini Down. L'associazione tra duo-test e plica nucale aumenta la percentuale di rilevamento delle anomalie cromosomiche, che sale al 85%.
Nel secondo trimestre di gravidanza, tra la 15 e la 18 settimana si può effettuare un altro test di Screening che si chiama tri-test, che consiste in un prelievo di sangue materno per la misurazione di tre sostanze di origine placentare (HCG, estriolo, alfafetoproteina). La percentuale di rilevamento delle anomalie cromosomiche è del 70%, cioè rileva 7 feti Down su 10.
Se il rischio personale fornito da questi test di screening è stimato elevato non significa avere un bambino con la sindrome di Down, ma la necessità di sottoporsi a un'indagine invasiva, come l'amniocentesi per escludere o confermare con certezza la sindrome di Down.
Tutti e tre i test sono stati messi a punto in modo tale da avere lo stesso tasso di falsi positivi pari al 5%. Vale a dire che in 5 casi su 100 si osservano valori anormali anche se il feto è sano.
Tritest
Che cos'è il tritest?
Il tritest è un semplice prelievo di sangue materno. Non è necessario il digiuno.
Quando si esegue il tritest?
Il tritest si esegue tra la 15° e la 20° settimana di gravidanza, preferibilmente tra la 15° e la 17° settimana.
A cosa serve il tritest?
Il tritest serve a conoscere la probabilità che il bambino sia affetto da trisomia 21. Inoltre individua il valore dell'alfafetoproteina (sostanza che dà informazioni sulla probabilità che il bambino sia affetto da alcune malformazioni).
Che cosa non può fare il tritest?
Il tritest non può fare una diagnosi, ma esprime una probabilità.
Come si legge la risposta del tritest?
La risposta del tritest è un numero che esprime una probabilità.
Se il numero è compreso tra 1/1 e 1/250 la probabilità che il bambino sia affetto da Trisomia 21 è considerata elevata. Se il numero è superiore a 250 la probabilità è considerata bassa. Quando il valore dell'alfafetoproteina è superiore a 2,5 MoM la probabilità che il bambino abbia una malformazione è considerata elevata.
Come si interpreta il risultato del tritest?
Un risultato di bassa probabilità non esclude completamente la trisomia 21 e le malformazioni fetali. Alcuni casi non sono evidenziati. Un test di probabilità non può mai fare una diagnosi. Un risultato di alta probabilità non significa che il bambino è affetto da trisomia 21 o da malformazioni. Indica l'opportunità di eseguire ulteriori accertamenti.
Quali sono gli esami ulteriori da eseguire?
Se la probabilità per la trisomia 21 è elevata l'esame diagnostico indicato è l'amniocentesi. Se il valore dell'alfafetoproteina è elevato l'esame diagnostico indicato è l'ecografia.
La plica nucale
Una delle paure più ricorrenti per una coppia che aspetta un bambino, è che il proprio figlio possa essere affetto da una cromosomopatia, in particolare dalla trisomia 21, o sindrome di Down, poiché esse si associano costantemente a malformazioni e/o handicaps psico-fisici.
La possibilità che una donna possa dare alla luce un figlio affetto da patologia cromosomica è strettamente correlata all'età materna: maggiore è l'età, più elevato è il rischio.
In base a questa semplice osservazione dal 1972 si iniziò a proporre l'analisi del cariotipo fetale alle donne di età superiore a 35 anni, ritenute arbitrariamente “a rischio”, poiché i primi dati sul reale rischio di sindrome di Down in base all'età materna vennero pubblicati solo alla fine del 1984. È stato poi osservato che gravide di età superiore a 35 anni costituiscono solo il 6-8% della popolazione ostetrica generale e partoriscono non più del 25-30% dei bambini con sindrome di Down. Da ciò si deduce che circa il 70% dei feti affetti nasce da donne più “giovani” e quindi considerate non a rischio elevato.
Come è possibile allora identificare prima della nascita tutti i feti affetti da trisomia 21, o dalle principali cromosomopatie (trisomia 18 e 13, monosemia 45x, tetraploidie)?
L'unico mezzo diagnostico disponibile è l'analisi del cariotipo fetale, che si esegue su cellule fetali che possono prevenire da liquido amniotico, tessuto placentare e sangue fetale. Le tecniche di prelievo di tali materiali (rispettivamente amniocentesi, villocentesi e cordocentesi) sono ovviamente invasive e comportano un rischio di perdita fetale che varia dall'1 al 3% a seconda della metodica impiegata e dall'esperienza dell'operatore. Se oltre a questo consideriamo anche gli elevati costi economici, si comprende come l'analisi del cariotipo fetale non possa essere offerta indiscriminatamente a tutte le gravide, ma solo a quelle in cui si individui un rischio di cromosomopatia sufficientemente elevato da giustificare un rischio di perdita fetale.
Poiché considerando l'età materna come unico fattore di rischio si riesce a individuare solo il 30% dei feti Down, si è posta l'esigenza di identificare dei tests di screening a cui sottoporre la popolazione ostetrica generale, capaci di evidenziare un gruppo di gravide “a rischio”, da poter così indirizzare verso la diagnosi prenatale invasiva. Attualmente il metodo di screening più utilizzato è di tipo biochimico: un prelievo di sangue materno viene effettuato a 15-18 settimane di gravidanza e si analizzano tre ormoni prodotti dall'unità feto-placentare (alfafetoproteina, estriolo non coniugato, beta hCG). In base a calcoli statistici, che tengono conto anche dell'età, del peso e della razza materni, viene stabilito per ogni donna il rischio specifico per quella gravidanza di avere un bambino affetto da sindrome di Down. Le gravide che hanno un rischio elevato possono accedere all'indagine citogenetica, indipendentemente dalla loro età. Con questo test è possibile identificare il 60% dei feti Down, il 90% delle gravidanza con spina bifida e praticamente tutti i casi di anencefalia.
Da un paio di anni si sta cercando di mettere a punto uno screening di tipo ecografico, applicabile però al primo trimestre di gravidanza. L'idea è nata dopo che nel 1989 Rottem aveva riportato di un feto con trisomia 21 che a 11 settimane di gravidanza presentava un igroma nucale cistico, risoltosi poi a 15 settimane. Da allora numerosi studi ecografici hanno dimostrato un'elevata associazione tra anomalie cromosomiche ed il riscontro nel primo trimestre di gravidanza di un accumulo di fluido a livello della nuca del feto, tra il piano muscolare e la cute. Tale reperto è stato definito nuchal translucency (o plica nucale), poiché questo è il suo aspetto ecografico.
Uno studio prospettico di 827 gravidanza singole sottoposte nel primo trimestre ad analisi del cariotipo aveva riportato che la prevalenza di nuchal translucency > 3mm. nei feti cromosomicamente normali e nei trisomici era di 4% ed 80% rispettivamente, con un false positive rate del 4,1%.
È importante sottolineare che una plica nucale di spessore aumentato, generalmente non evolve verso un edema nucale o un igroma cistico nel secondo trimestre, ma solitamente si risolve, rendendosi così non più valutabile nel 2 e 3 trimestre di gravidanza. In base ad alcuni studi anatomopatologici sembra che la causa principale della comparsa della plica nucale sia imputabile ad anomalie cardiache (in particolare a difetti del setto atrioventricolare o della parte perimembranosa del setto interventricolare) che spesso si risolvono in utero o durante il primo anno di vita. Secondo altri autori invece la causa sarebbe una malformazione dei linfatici del collo (spesso una mancata o ridotta comunicazione con il circolo ematico), che determina una congestione, con conseguente comparsa dell'edema.
In letteratura sono ormai stati pubblicati numerosi studi sulla valutazione dello spessore della plica nucale nel 1° trimestre di gravidanza e l'associazione con le cromosomopatie. Pur non avendo ancora raggiunto in campo internazionale un totale accordo sulle settimane gestazionale in cui eseguire l'esame e sul cut-off di spessore da utilizzare i dati preliminari inducono a ritenere che la determinazione ecografia della nuchal translucency possa essere impiegata come valido test di screening per le cromosomopatie nel 1° trimestre di gravidanza.
Attualmente sono pochi i centri specializzati nel campo della diagnosi prenatale che possono disporre di casistiche sufficientemente ampie da poter proporre e applicare clinicamente questa metodica; in molti altri centri invece lo screening è proposto e applicato in via sperimentale. Nella nostra clinica si intende proporre un protocollo sperimentale di screening ecografico alle gravide in epoca gestazionale tra 11 e 14 settimane. A queste donne nel corso della routinaria ecografia di base del 1° trimestre viene offerta la valutazione della plica nucale fetale, utilizzando un cut-off di spessore di 3 mm. Non potendo ancora disporre di dati sufficienti a poter calcolare per ogni gravida il rischio specifico per cromosomopatia, l'obiettivo del lavoro è identificare i feti che mostrando una plica nucale > 3 mm, vengono ritenuti genericamente a rischio. Con la donna verrà quindi discussa l'opportunità di accedere alla indagine citogenetica invasiva, unico mezzo diagnostico disponibile, considerando i rischi ad essa connessi.