Dottoressa Aloi, la notizia di una malattia è tra gli eventi più destabilizzanti che un individuo possa affrontare nella propria vita. Quali sono le reazioni emozionali a una Diagnosi di tumore?
È bene parlare proprio di “reazioni” e non solamente di reazione in quanto, oltre a quelle provate dal paziente, occorre tener conto anche della reazione del medico che deve comunicare la diagnosi: pur se non intense come quelle della persona malata anche la reazione del medico è riconducibile a molteplici "pensieri".
Tali pensieri del medico sono una caduta a cascata del proprio vissuto: per empatia egli potrebbe provare solamente compassione per il Dolore del malato e non a caso esiste la "cura compassionevole". Ma io ritengo che il medico, al di là della compassione, provi una cascata di emozioni che, quasi indipendentemente dal malato, provengono dal proprio vissuto. La sua storia di esperienza del dolore lo porterà a comunicare la diagnosi in un modo piuttosto che in un altro e ciò dipende, appunto, da ciò che significa “dolore” per lui.
Le emozioni del paziente sono invece quasi indescrivibili, perché – oltre a quanto detto per le emozioni del medico – queste sono le “sue” emozioni, è della propria vita che si tratta e non certo solamente di una brutta notizia.
Davanti alla formulazione della diagnosi di tumore, in qualunque modo sia fatta - e si spera sia fatta con il tatto e la sensibilità necessarie e con le giuste parole - nell'immediato il paziente tenderà a far finta di non aver capito. Sarà triste ma non sarà ancora entrato nello specifico delle vere reazioni. Alcuni pazienti per difendersi dall'impatto troppo forte possono addirittura mettersi a ridere come può avvenire ad esempio durante un funerale.
In genere ciò dura poco e piano piano subentra la realtà che anche se negata è comunque “evidente”.
Noi siamo fatti per vivere con la consapevolezza che moriremo ma con la “fortuna” di non sapere quando.
Una diagnosi infausta sovverte le situazioni in quanto si sa che si morirà entro un tempo deciso e decisivo.
Ecco allora entrare – solo da questo momento in avanti – le vere emozioni del paziente, anch'esse provenienti dal proprio vissuto: rabbia, dolore, frustrazione, vendetta, sfida, depressione e tanto ancora appartiene alla individuale capacità emotiva – reattiva – difensiva.
Dolore fisico e dolore psichico: è umanamente possibile riuscire a dare "un senso" alla malattia?
La voglia di vivere è il "principio" che porta a dare senso a ogni evento, fatto, situazione che tocca ai comuni mortali, come lo siamo noi tutti, ma in maniera assolutamente ontologica (ognuno ha la sua) e pertanto anche "dare un senso al tumore" è una perogativa assolutamente intima: è possibile dare un senso proprio nel "non" dare un senso.
Questo è il caso assunto da chi non ne vorrebbe sapere della sua realtà e trasforma la malattia quasi in un "diversivo" rispetto alle altre persone.
Ossia si perde il senso dando alla malattia il senso quasi del "gioco": io ce l'ho e tu no... come fanno i bambini (e non solamente loro) davanti a situazioni traumatiche (si pensi alla “fierezza” di molti nel mostrare le cicatrici).
In queste situazioni si investono tutte le energie narcisistiche per esporre, mettere in mostra, e quasi quasi ci si affeziona al tumore. La voglia di vivere supera così l'attesa e, in casi così, non solo non si dà un senso alla malattia ma non lo si dà neppure all'attesa. Mentre invece il momento dell'attesa dovrebbe essere utilizzato per mettere le cose al proprio posto, per sistemare e sistemarsi con altri sentimenti.
Ciò però è sufficientemente facile da assumere quando il dolore fisico non ricorda in ogni istante la situazione e non dà tregua e spazio alla pensabilità della propria morte.
"Significare" la morte è anche un fatto di Fede che può essere consolatorio in quanto è posta la domanda/risposta che sia fatta la Volontà, invece di urlare perché proprio a me.
In ogni caso il dolore fisico ha, a mio parere, un contenuto davvero pregno di significato perché è lì, nel corpo, che passa tutta l'espiazione o l'attesa o altro ancora molto simile all'essere già morti.
Il dolore psichico in molti casi è inspiegabile da tanto è impossibile inquadrarlo. Non a caso esiste una ricerca per la soluzione–sollievo del dolore fisico, molto più ricca e florida che non per il dolore psichico.
Per esso esiste la soluzione placebo ma la risposta, ancora una volta, è soggettiva e quindi
è molto facile che il malato produca per sé una buona dose di morfina psichica per ottundere un dolore mentale insopportabile.
Il dolore psichico comporta sempre un lutto in generale e generico, ma quello per se stessi, se non è “narcisizzato” o sublimato o addirittura “erotizzato”, è molto pesante.
Quindi, dare un senso alla malattia significa vedere e rivedere il proprio modo di vivere.
Bisognerebbe sempre ricordare che anche la morte è un “Fatto” della vita. Fatto assolutamente privato.
Come aiutare i pazienti ad affrontare l'incertezza del futuro?
Il futuro di per sé è incerto, aleatorio, ma esso rappresenta il tempo della costruzione della vita da lì in avanti, ogni volta da lì in avanti, fintanto che non si realizzi una sorta di piattaforma su cui sostare con sufficiente stabilità. Tanti sono i fattori che ne determinano la presenza o meno, ad esempio gli insegnamenti e le imitazioni.
Quindi per definizione, il futuro è il tempo della non-certezza e a dire il vero non trovo tanta differenza tra una persona sana e una persona malata di Tumore nelle possibilità che entrambi hanno a disposizione. L'unica grande differenza sul futuro consiste nella possibilità di avere speranza oppure no. Quando si è sani, quasi non si fa caso a ciò ed è quindi nei momenti tragici, a maggior ragione in quelli definitivi, che la speranza ha il suo ruolo,
Il malato di tumore può vivere il futuro – addirittura costruirlo - esattamente come un'altra persona non malata di tumore, finché ci sarà ancora “domani”: per una persona non malata “domani” è sconosciuto e incerto; per la persona malata “domani è davvero “domani”.
Se il tempo della costruzione del futuro è proprio il tempo dell'attesa, ogni persona, sana o malata che sia, mette in campo le proprie aspettativa, le proprie ambizioni, abilità eccetera. E ciò deve essere fatto anche dal malato di tumore.
Il tempo che resta da vivere, ossia l'attesa, va investito allo stesso modo, come se non si sapesse la "data di scadenza": so che è difficilissimo, ma questo è a mio parere l'unica cosa buona da fare per se stessi. Anzi, è proprio perché si sa che la vita è agli sgoccioli che subentra ciò che si chiama "utilità marginale", da un concetto di economia che afferma che l'ultima parte di un bene è la più redditizia. Non a caso si dice che la speranza è l'ultima a morire.
Mai farsi cogliere dalla depressione, perché essa è già "morte". E perché mai morire ancor prima del previsto?
Ecco a mio parere una buona preparazione all'attesa dovrebbe contemplare pensieri di vita "normale" sapendo che il tempo è quello che è.
Ben vengano tutte le terapie che diano sollievo al dolore fisico in modo da poter soffermarsi sul proprio dolore psichico e accarezzarlo come si farebbe con un piccolo innocente, perché il tumore – di per sé – non è responsabile, caso mai lo sono le condizioni che lo hanno determinato.
Come è possibile aiutare i familiari dei malati di cancro nel difficile ruolo di supporto al proprio caro?
È molto probabile che il malato di tumore abbia una famiglia alle spalle ed è importante che essa sia aiutata a sopportare la malattia del proprio familiare o del proprio caro. Che fare? Non c'è molto da fare: la prima cosa, a mio parere, è restare nella verità della situazione, non fingere, non essere buonisti o pietosi inutilmente.
E poi impedire assolutamente che il tumore diventi “infettivo”, cioè che colga anche gli altri nell'attesa mortifera della “data”. È importante continuare a vivere pur preparandosi ad affrontare il “vuoto” che resterà.
Esattamente come per ogni perdita occorre che ci sia il tempo del dolore, della comprensione della realtà e attendere che le energie tutte accumulate sul lutto vadano scemando in modo da poterle nuovamente investire nella vita incerta.
Intervista di Roberta Collina
È bene parlare proprio di “reazioni” e non solamente di reazione in quanto, oltre a quelle provate dal paziente, occorre tener conto anche della reazione del medico che deve comunicare la diagnosi: pur se non intense come quelle della persona malata anche la reazione del medico è riconducibile a molteplici "pensieri".
Tali pensieri del medico sono una caduta a cascata del proprio vissuto: per empatia egli potrebbe provare solamente compassione per il Dolore del malato e non a caso esiste la "cura compassionevole". Ma io ritengo che il medico, al di là della compassione, provi una cascata di emozioni che, quasi indipendentemente dal malato, provengono dal proprio vissuto. La sua storia di esperienza del dolore lo porterà a comunicare la diagnosi in un modo piuttosto che in un altro e ciò dipende, appunto, da ciò che significa “dolore” per lui.
Le emozioni del paziente sono invece quasi indescrivibili, perché – oltre a quanto detto per le emozioni del medico – queste sono le “sue” emozioni, è della propria vita che si tratta e non certo solamente di una brutta notizia.
Davanti alla formulazione della diagnosi di tumore, in qualunque modo sia fatta - e si spera sia fatta con il tatto e la sensibilità necessarie e con le giuste parole - nell'immediato il paziente tenderà a far finta di non aver capito. Sarà triste ma non sarà ancora entrato nello specifico delle vere reazioni. Alcuni pazienti per difendersi dall'impatto troppo forte possono addirittura mettersi a ridere come può avvenire ad esempio durante un funerale.
In genere ciò dura poco e piano piano subentra la realtà che anche se negata è comunque “evidente”.
Noi siamo fatti per vivere con la consapevolezza che moriremo ma con la “fortuna” di non sapere quando.
Una diagnosi infausta sovverte le situazioni in quanto si sa che si morirà entro un tempo deciso e decisivo.
Ecco allora entrare – solo da questo momento in avanti – le vere emozioni del paziente, anch'esse provenienti dal proprio vissuto: rabbia, dolore, frustrazione, vendetta, sfida, depressione e tanto ancora appartiene alla individuale capacità emotiva – reattiva – difensiva.
Dolore fisico e dolore psichico: è umanamente possibile riuscire a dare "un senso" alla malattia?
La voglia di vivere è il "principio" che porta a dare senso a ogni evento, fatto, situazione che tocca ai comuni mortali, come lo siamo noi tutti, ma in maniera assolutamente ontologica (ognuno ha la sua) e pertanto anche "dare un senso al tumore" è una perogativa assolutamente intima: è possibile dare un senso proprio nel "non" dare un senso.
Questo è il caso assunto da chi non ne vorrebbe sapere della sua realtà e trasforma la malattia quasi in un "diversivo" rispetto alle altre persone.
Ossia si perde il senso dando alla malattia il senso quasi del "gioco": io ce l'ho e tu no... come fanno i bambini (e non solamente loro) davanti a situazioni traumatiche (si pensi alla “fierezza” di molti nel mostrare le cicatrici).
In queste situazioni si investono tutte le energie narcisistiche per esporre, mettere in mostra, e quasi quasi ci si affeziona al tumore. La voglia di vivere supera così l'attesa e, in casi così, non solo non si dà un senso alla malattia ma non lo si dà neppure all'attesa. Mentre invece il momento dell'attesa dovrebbe essere utilizzato per mettere le cose al proprio posto, per sistemare e sistemarsi con altri sentimenti.
Ciò però è sufficientemente facile da assumere quando il dolore fisico non ricorda in ogni istante la situazione e non dà tregua e spazio alla pensabilità della propria morte.
"Significare" la morte è anche un fatto di Fede che può essere consolatorio in quanto è posta la domanda/risposta che sia fatta la Volontà, invece di urlare perché proprio a me.
In ogni caso il dolore fisico ha, a mio parere, un contenuto davvero pregno di significato perché è lì, nel corpo, che passa tutta l'espiazione o l'attesa o altro ancora molto simile all'essere già morti.
Il dolore psichico in molti casi è inspiegabile da tanto è impossibile inquadrarlo. Non a caso esiste una ricerca per la soluzione–sollievo del dolore fisico, molto più ricca e florida che non per il dolore psichico.
Per esso esiste la soluzione placebo ma la risposta, ancora una volta, è soggettiva e quindi
è molto facile che il malato produca per sé una buona dose di morfina psichica per ottundere un dolore mentale insopportabile.
Il dolore psichico comporta sempre un lutto in generale e generico, ma quello per se stessi, se non è “narcisizzato” o sublimato o addirittura “erotizzato”, è molto pesante.
Quindi, dare un senso alla malattia significa vedere e rivedere il proprio modo di vivere.
Bisognerebbe sempre ricordare che anche la morte è un “Fatto” della vita. Fatto assolutamente privato.
Come aiutare i pazienti ad affrontare l'incertezza del futuro?
Il futuro di per sé è incerto, aleatorio, ma esso rappresenta il tempo della costruzione della vita da lì in avanti, ogni volta da lì in avanti, fintanto che non si realizzi una sorta di piattaforma su cui sostare con sufficiente stabilità. Tanti sono i fattori che ne determinano la presenza o meno, ad esempio gli insegnamenti e le imitazioni.
Quindi per definizione, il futuro è il tempo della non-certezza e a dire il vero non trovo tanta differenza tra una persona sana e una persona malata di Tumore nelle possibilità che entrambi hanno a disposizione. L'unica grande differenza sul futuro consiste nella possibilità di avere speranza oppure no. Quando si è sani, quasi non si fa caso a ciò ed è quindi nei momenti tragici, a maggior ragione in quelli definitivi, che la speranza ha il suo ruolo,
Il malato di tumore può vivere il futuro – addirittura costruirlo - esattamente come un'altra persona non malata di tumore, finché ci sarà ancora “domani”: per una persona non malata “domani” è sconosciuto e incerto; per la persona malata “domani è davvero “domani”.
Se il tempo della costruzione del futuro è proprio il tempo dell'attesa, ogni persona, sana o malata che sia, mette in campo le proprie aspettativa, le proprie ambizioni, abilità eccetera. E ciò deve essere fatto anche dal malato di tumore.
Il tempo che resta da vivere, ossia l'attesa, va investito allo stesso modo, come se non si sapesse la "data di scadenza": so che è difficilissimo, ma questo è a mio parere l'unica cosa buona da fare per se stessi. Anzi, è proprio perché si sa che la vita è agli sgoccioli che subentra ciò che si chiama "utilità marginale", da un concetto di economia che afferma che l'ultima parte di un bene è la più redditizia. Non a caso si dice che la speranza è l'ultima a morire.
Mai farsi cogliere dalla depressione, perché essa è già "morte". E perché mai morire ancor prima del previsto?
Ecco a mio parere una buona preparazione all'attesa dovrebbe contemplare pensieri di vita "normale" sapendo che il tempo è quello che è.
Ben vengano tutte le terapie che diano sollievo al dolore fisico in modo da poter soffermarsi sul proprio dolore psichico e accarezzarlo come si farebbe con un piccolo innocente, perché il tumore – di per sé – non è responsabile, caso mai lo sono le condizioni che lo hanno determinato.
Come è possibile aiutare i familiari dei malati di cancro nel difficile ruolo di supporto al proprio caro?
È molto probabile che il malato di tumore abbia una famiglia alle spalle ed è importante che essa sia aiutata a sopportare la malattia del proprio familiare o del proprio caro. Che fare? Non c'è molto da fare: la prima cosa, a mio parere, è restare nella verità della situazione, non fingere, non essere buonisti o pietosi inutilmente.
E poi impedire assolutamente che il tumore diventi “infettivo”, cioè che colga anche gli altri nell'attesa mortifera della “data”. È importante continuare a vivere pur preparandosi ad affrontare il “vuoto” che resterà.
Esattamente come per ogni perdita occorre che ci sia il tempo del dolore, della comprensione della realtà e attendere che le energie tutte accumulate sul lutto vadano scemando in modo da poterle nuovamente investire nella vita incerta.
Intervista di Roberta Collina
Ultimo aggiornamento: 04 Dicembre 2015
9 minuti di lettura