L’ADHD - acronimo inglese di “Disturbo da deficit di attenzione e di iperattività” - è una condizione riconosciuta e dibattuta da circa 50 anni. Attualmente è classificato nel DSM5 (ultima edizione del manuale di riferimento a livello internazionale per la diagnosi delle patologie psichiatriche) tra i disturbi del neurosviluppo, ovvero una serie di disturbi a esordio nel periodo dello sviluppo e con possibile permanenza in età adulta.
ADHD, cosa comporta?
Studi epidemiologici effettuati nei vari continenti hanno contribuito ad avvalorare la validità della categoria diagnostica, stimando una prevalenza simile a livello internazionale di circa il 5% nei bambini e del 2,5% negli adulti. Anche secondo i criteri classificativi, comunque, l’ADHD è un disturbo clinicamente molto eterogeneo, con sintomi che possono coinvolgere variamente i domini dell’inattenzione, iperattività e impulsività.
A livello patofisiologico, questi sintomi presentano una matrice comune nell’alterazione del cosiddetto arousal – ovvero il sistema che consente l’attivazione comportamentale delle funzioni esecutive quali il processamento delle informazioni, l’inibizione del comportamento, la pianificazione, l’adattamento ai cambiamenti di regole e aspettative da parte dell’ambiente – e del sistema della motivazione, con un’alterata risposta all’aspettative future e avversione a posticipare la gratificazione. Le ripercussioni sul funzionamento non sono omogenee e generalmente sono contesto-specifiche,ad esempio molto più evidenti nei confronti di compiti lunghi e ripetitivi con bassa stimolazione, rispetto a compiti più rapidi e coinvolgenti.
Diagnosi e trattamento dell'ADHD
Per la variabilità della presentazione clinica, la diagnosi di ADHD è complessa e prevede, accanto ad un’anamnesi completa familiare, gestazionale e di sviluppo, una valutazione di tipo neuropsicologico. Assumere un approccio diagnostico longitudinale, se è importante nella valutazione di tutte le condizioni di interesse psichiatrico, è particolarmente rilevante per i disturbi del neurosviluppo per l’impatto che una diagnosi precoce ed interventi preventivi possono avere anche nella vita successiva dell’individuo.
La criticità della diagnosi e la necessità di un consulto specialistico sono legate anche alla complessità della terapia. Rispetto a quello che il senso comune potrebbe giudicare come paradossale, infatti, i farmaci che tutte le linee guida internazionali indicano come prima linea di intervento per l’ADHD sono farmaci stimolanti, ovvero formulazioni di metilfenidato e anfetamina.
Le comprensibili preoccupazioni relativamente all’utilizzo degli stimolanti rispetto al potenziale di abuso sono state invece smentite da diversi studi che hanno mostrato come tali farmaci, rigorosamente in pazienti ADHD, diminuiscano il rischio di dipendenza da sostanze.
Non identificare la patologia priverebbe il paziente con ADHD di un presidio terapeutico che spesso risulta efficace nel cambiarne radicalmente il funzionamento scolastico, sociale od occupazionale.
Nel caso di effetti collaterali da psicostimolanti, sono disponibili anche farmaci cosiddetti non-stimolanti, tra i quali l’atomoxetina, i quali tuttavia hanno dimostrato minor efficacia rispetto ai primi. Mentre queste categorie di farmaci hanno dimostrato efficacia simile sia nei bambini che negli adulti, per quanto riguarda gli interventi terapeutici non-farmacologici – anch’essi ritenuti di prima linea – questi devono essere differenziati non solo a seconda del dominio cognitivo e motivazionale coinvolto, ma anche a secondo dell’età del paziente.
La scelta del trattamento psicoeducazionale e comportamentale quindi, seguendo il principio della cosiddetta medicina di precisione, dovrà tenere conto della specifica caratterizzazione del disturbo nel singolo paziente. Per esempio, un training di potenziamento delle funzioni esecutive potrebbe risultare poco efficace in un bambino che presenta alterazioni nel dominio motivazionale.
L’ADHD è una condizione importante perché può inficiare non solo il benessere attuale del bambino, ma anche il suo futuro sviluppo: comporta rilevanti limitazioni funzionali, ma anche ripercussioni negative a livello relazionale, e soprattutto perché, se riconosciuta, è trattabile e curabile.