Pensare al sistema nervoso come qualcosa che possa 'esaurirsi' è un'immagine mentale priva di qualsiasi terreno biologico, o meglio, esiste in natura come possibilità di deterioramento reale dei costituenti della materia nervosa; ma in quel caso si parla di demenza, o comunque di malattia neurodegenerativa in senso stretto.
Certo, non col significato che tutti evochiamo alla mente quando sentiamo parlare di 'esaurimento nervoso'. Personalmente, avendo già un'età, penso subito a quelle condizioni un po' patetiche, di ambiente borghese del Novecento, quando ci si riferiva al povero parente finito in manicomio perché "aveva dato di testa", per cui si utilizzava la formula di 'esaurimento nervoso' per cercare con questa pietosa espressione di dissimulare la vergogna di avere il pazzo in famiglia.
Infatti, da quando i manicomi non esistono più (o almeno non vengono più 'ufficialmente' utilizzati) anche la terminologia urbana è cambiata: oggi quando una persona avverte un profondo disagio davanti alla necessità di far fronte alle quotidiane vicissitudini riferisce 'depressione', 'attacchi di panico', 'stanchezza cronica'.
Oddio, il gergo popolare utilizza ancora espressioni come "sto esaurito", ma se per questo si sentono in giro anche frasi del tipo "sto sclerando" che rimandano immaginificamente ad una condizione di mostruosa e fumettistica arteriosclerosi cerebrale subitanea. Il problema, al di là del lessico, rimane quello suggerito dal significato di 'esaurimento'.
La capacità evocativa della parola rimanda all'idea di un bagaglio di risorse che viene consumato fino allo stremo nell'esercizio di un compito. Qual è il compito? In senso lato, il buon adattamento all'ambiente, il mantenimento dell'armonia. In quest'ottica, l'idea di esaurimento porta subito all'associazione con il concetto, anch'esso strausato, di stress.
Anche per la nozione di stress esiste un'ampia sovrapposizione di significati che, se nelle scienze biologiche rimane abbastanza univoco (lo stress corrisponde ad un processo dinamico in cui il contrasto tra forze contrapposte è particolarmente elevato), nell'uso generale connota più spesso l'effetto destruente dello sforzo sul soggetto che lo compie (essere 'stressato') oppure, all'opposto, la causa dell'effetto (stress come agente potenzialmente dannoso).
Globalmente, ci si accorge di essere di fronte a sensazioni umane universali il cui armamentario descrittivo linguistico appare vago ed insufficiente. E anche l'aggettivo 'nervoso' non può certo essere immediatamente attribuito alle funzioni del sistema nervoso così come è modernamente concepito.
La fatica, la debolezza, il deficit delle funzioni coscienti del sistema nervoso rientrano in sindromi obiettivabili, la maggior parte delle volte anche conoscibili sul piano bio-organico. Il tentativo di evocare la funzione nervosa 'in esaurimento' fa trasparire la sensazione che normalmente attribuiamo al buon funzionamento del nostro 'io' cosciente: buon umore, regolarità dei ritmi, sensazione di armonia con l'ambiente, condivisione di significato delle sensazioni con i propri simili.
Quando qualcuna di queste qualità si altera si avverte lo sconcerto della 'perdita di funzione', da cui la pregnanza semantica del termine 'esaurimento'. La psichiatria moderna non può certo accettare un concetto così generico per indicare nosologicamente una 'sofferenza dello spirito': oggi i disordini dello stato affettivo, delle capacità comportamentali e razionali vengono analizzati, distinti e classificati, nel tentativo (ahimè, non sempre felice) di proporre terapie specifiche, 'ad hoc'.
L'esaurimento nervoso rimane il racconto della traversia dell'anima, di colui che stava bene e che, per motivi inspiegabili, si ritrova a soffrire la perdita dell'armonia interiore. Il termine, più che lo stato oggettivo del paziente, riesce ancora ad indicare questo rovinoso percorso: il 'paradiso perduto'.